Il Contratto – racconto in 7 post: parte prima

Vorrei, amici di Internet, nei prossimi post, pubblicare un lungo racconto scritto tantissimi anni fa  quand’ero a Melbourne, in Australia, in un periodo molto difficile e problematico della mia vita: volevo, volevo a tutti i costi trovarle, darle un senso. Il risultato è stato questo scritto: “Il Contratto”. Ne sono uscite parti un po’ lunghe, vedete se ne vale la pena leggerle. Ecco a voi la prima parte.

A proposito, critiche, riflessioni, domande, stroncature e anche accenni positivi “se piace”, sono i benvenuti. Insomma, a vostro piacere, io sarò felice di leggerli e cercherò di rispondervi. Grazie.

Il Contratto

Sedeva lì, quella sera, la sera del suo trentunesimo compleanno, da solo, in quella camera, in quell’edificio a tre piani, a St. Kilda, Australia, più sconsolato che allegro, irradiato da una luce fioca proveniente da una vecchia lampada, rosicchiandosi le unghie, fumando una sigaretta dopo l’altra e sentendosi schifato nel sacco di pelle che lo conteneva. Attraverso la finestra vedeva il mare, un mare sempre più immerso dalle tenebre.

            Chi avesse guardato nella camera, non avrebbe visto che giornali, riviste, bottiglie vuote, abiti. Sul tavolo c’erano un vaso di rose, un libro, una matita, fogli di carta, un notebook; sul letto non rifatto, un vassoio di plastica con avanzi del ristorante cinese sotto casa; in un angolo, un clarinetto nel suo astuccio; i muri erano spogli e sul comodino c’erano una sveglia, un bicchiere e una fotografia dei suoi genitori, gliel’avevano appena mandata da Perth insieme alla lettera di auguri.

Aveva un’espressione stanca. Infatti era stanco, stanco di pensare e ripensare alla sua vita e a quello che avrebbe voluto e potuto farne. Detto in nuce, non lo sapeva. Aveva cercato aiuto, consigli, suggerimenti, prima tra gli amici e poi tra gli esperti, ma nessuno l’aveva illuminato, né risolto il suo problema. Allora, a poco a poco, si era convinto che se c’era qualcuno che avrebbe potuto tirarlo fuori dalla sua miseria esistenziale, questo avrebbe dovuto essere proprio lui: Max Barnes che aiutava Max Barnes.

Aveva un lavoro, ma non lo soddisfaceva; suonava il clarinetto più per disperazione che per piacere; giocava a golf, ma solo per accontentare gli amici. Non c’era più verso, aveva raggiunto il suo limite, si sentiva inutile, demotivato, un peso, ogni cosa lo schifava. Ma cosa poteva fare per tirarsi fuori da quella stomachevole inerzia? Ammazzarsi? Ottima idea. Solo che poi, a esperienza compiuta, non avrebbe potuto raccontarla a nessuno, nemmeno a se stesso. E non perché si sentiva un narciso mitomane, ma perché gli sembrava un’esperienza sprecata. Allora perché non andare da quel tipo che viveva sotto di lui e rompergli la faccia? E se quello invece di farsela rompere, l’avesse rotta a lui? Anche questa avrebbe potuto essere una nuova esperienza, però! E perché, poi, invece di continuare ad avere mani da damerino, non cercarsi un lavoro vero, un lavoro di merda in una fabbrica di merda? Non male come idea, ma con quale prospettiva? Insomma, Max non aveva le idee chiare. Sapeva solo che voleva uscire dal tipo di vita che menava. Ne era annoiato, annoiato e basta. Cercava, cercava, cercava, nel buio della sua esistenza, una luce che gliela illuminasse, ma non la trovava.

Questo pasticcio esistenziale era esploso con violenza nella testa di Max, proprio quella sera, la sera del suo trentunesimo compleanno. Certo, era già stato visitato da idee del genere, ma mai come quella volta. Niente, era stufo, stufo di celebrare il suo compleanno, stufo di tutti quegli happy birthday to you, stufo di brindisi e di banchetti, stufo di ritornarsene a casa, alla fine, col peso d’un anno in più sul groppone, un altro anno andato in fumo, vissuto senza uno scopo e senza una reale soddisfazione di vivere.

In natura, lo sapeva, non ci sono scopi, non c’è un senso, perché il vero senso della natura è il silenzio, il silenzio degli astri e degli elementi.

Il silenzio del saggio, non lo interessava. E comunque, lui non aveva né la predisposizione ad accomodarsi alle leggi della natura, né l’inclinazione del saggio. Intuiva che, se mai avesse voluto sfuggire alla propria futilità, alla propria indolenza e poltroneria, doveva dare un taglio netto al tipo di vita che aveva condotto fino ad allora. Ma per fare cosa? E di nuovo: non lo sapeva.

In ogni modo, fu quella stessa sera, la sera del suo trentunesimo compleanno, a notte fonda, mentre continuava a fumare, a rosicchiarsi le unghie e a guardare verso il mare che non vedeva più, che all’improvviso gli era venuta un’idea, un’idea bizzarra, pazza, crazy. Però, più pensava a questa idea, più gli piaceva.

Era arrivato il momento, pensò, il momento di fare il salto. Perché non passare da una vita noiosa e sans souci ad una vita piena di impegni e di obiettivi? Perché continuare a vagare nel vuoto come un asteroide nello spazio, quando invece avrebbe potuto smettere di vagare per le strade della perdizione, deviare la sua traiettoria e puntare dritto dritto su un astro? Perchè, per esempio, non fare un contratto, un contratto con la sua vita, scritto e firmato da lui medesimo, un contratto che l’avrebbe coinvolto, dall’oggi al domani, in un vortice di vincoli e di avventure? E, lì per lì, Max, Max Barnes, iniziò a escogitare un piano: il piano della sua vita.

Quale? Che tipo di piano? In quel momento ne aveva tanti per la testa e di ogni sorta. Li passò al vaglio uno dopo l’altro: quello no, quell’altro neanche, neppure questo e di quello nemmeno a word. Quale allora? Continuava a pensare, a cercare, a valutare.

Più tardi, mentre incominciava a sentire la fatica del cervello e stava per addormentarsi lì sulla sedia, si scosse, si agitò, si strofinò gli occhi tutto agitato. Ma sì, certo, era chiaro quello che voleva. Sì, chiaro. Anzi chiarissimo. Senza ombra di dubbio.

“No, aspetta, Max, aspetta amico mio, calma,” fece a se stesso. “Non è che ti sei fatto influenzare dai tuoi…,” e non finì la frase. “Sciocchezze. So quel che voglio!,” troncò.

Prese carta e penna, buttò giù, nero su bianco, una serie di azioni da eseguire, qualcosa che lo legasse a obblighi, i quali avrebbero dovuto essere realizzati entro e non oltre un determinato tempo. Insomma, il tempo del contratto non avrebbe dovuto essere troppo lungo, altrimenti non aveva senso, doveva essere  relativamente corto per essere abbastanza impegnativo, serio, decisivo ed eccitante. Un tempo record? Affatto. La sua era una sorta di sfida con se stesso e null’altro. A challenge, come dicono gli inglesi. E perché no? La cosa gli piacque. Molto. E così:

“Da oggi, giorno del mio trentunesimo compleanno, dedicherò il prossimo numero x di anni, non alla riuscita d’un impiego: non m’interessa; non alla carriera professionale: non m’interessa; non ad una pur probabile riuscita artistica: non m’interessa; non ad uno spreco esistenziale: questo non lo voglio, ma ad un matrimonio ideale. Il mio cuore e il mio cervello hanno fatto questa scelta questa sera e questa scelta sarà. Perciò, se durante questo numero x di anni realizzerò il mio desiderio, il desiderio di realizzare un matrimonio bello, felice, comme il faut, allora consacrerò il resto della mia vita a questo impegno, a questo sogno esistenziale. Se, invece, non troverò piena soddisfazione in questo progetto, allora, e così farò, parola di Max Barnes, il giorno del mio x compleanno, io …”

Voilà, after all, era così facile!

Ovvio, Max avrebbe potuto investire i suoi anni e la sua esistenza in altri ideali, avventure, giochi del vivere. Però, a suo modo di vedere e nonostante la cosa fosse contro corrente, lui la vedeva diversamente. Era convinto che al di fuori d’un buon rapporto familiare, sentimentale, affettivo, al di fuori d’una buona intesa con l’altro, non ci sarebbe mai e poi mai stata una vera felicità, ma solo un volgare e indegno aggiustamento del vivere insieme o da soli. Per lui amare ed essere amati era la cosa più bella al mondo.

Max, e anche questo era chiaro, non si accontentava più d’una vita mediocre, vissuta all’insegna dello spreco, voleva altro. Non era fatto per il sesso usa e getta, non era fatto per rapporti banali, non era fatto per rapporti animaleschi, non era fatto per gente che si sposa oggi e divorzia domani, non era fatto neppure per concimare il mondo, per preservare la specie. No, questo non era lui. La superficialità non era il suo forte. Non voleva neppure fare parte di quelle coppie che, ancora prima di sposarsi, si cercavano un avvocato per poter sistemare tutto al meglio, in caso di divorzio. No, no, no, non condivideva questo sfacelo, lui voleva un rapporto solido, sano, duraturo, bello, soddisfacente, degno di essere vissuto, degno di esseri umani, un matrimonio ideale, appunto.

Nasciamo, pensava ora contento di sé, sveglissimo e ringalluzzito mentre guardava la fotografia dei suoi genitori sul comodino, nasciamo a caso. Proprio così, a caso. Nessuno potrà mai sapere della sua venuta al mondo: noi, qui, così, piaccia o non piaccia. E va beh, nascere a caso sì, perché non si può fare diversamente, ma vivere a caso no, mai! Possiamo scegliere come vivere e come morire. Questo, almeno questo, è in nostro potere, è in mio potere e ne prendo atto, voilà.

Quando un essere umano si rende conto dell’implacabile condizione che gli pone la vita, per cui sin dall’inizio è condannato a morire, quando realizza questo, dovrebbe suicidarsi, rendendosi più forte del suo destino, più forte del proprio egoismo e della tragica fine impostagli dalla natura. Se invece sceglie di vivere, deve sapere che ha scelto di farlo da vigliacco, da animale privo della cognizione di ciò che l’aspetta. Tutto questo Max l’aveva udito da sua madre, e più d’una volta, quando gli parlava di Dostoevskij.

Suo padre, un uomo semplice ma per nulla superficiale, ispirandosi, forse, a quello che la moglie diceva di Dostoevskij, sosteneva che ognuno doveva cercare, come meglio credeva e poteva, di esorcizzare la propria morte inventandosi qualcosa, qualsiasi cosa che lo distogliesse dall’impietosa condizione umana, dall’impietosa malvagità della natura.

Max non era sicuro di essere stato influenzato più dal padre o da Dostoevskij, però l’idea che gli era balenata in testa quella sera, la sera del suo trentunesimo compleanno, era questa: per evitare di vivere da bestia o da vile, come sosteneva Dostoevskij, o per sfuggire alla crudele condizione umana, come diceva suo padre, bastava escogitare un contratto. E fu proprio ciò che lui fece, un contratto, un contratto che lo impegnava a questo e a quello, un contratto e basta. Dopo averlo letto e riletto, soddisfatto, lo firmò, lo piegò, lo mise nel portafogli e se lo ficcò in tasca.

E così, il terzo accidente ( col primo si nasce, il secondo te lo dà la società in cui vivi e il terzo te lo devi creare tu, se sei all’altezza ) l’aveva risolto quella sera a forza di volontà e disperazione esistenziale, la sera del suo trentunesimo compleanno. Lì, in quell’edificio a tre piani, di St. Kilda, Australia; lì, seduto su una sedia rivolta verso il mare, mentre continuava a rosicchiarsi le unghie, a fumare una sigaretta dopo l’altra e a guardare il mare che non vedeva più; lì, a riflettere su quella geniale idea che aveva avuto e a come avrebbe potuto metterla in opera a partire dall’indomani che, e questo era vitale, non sarebbe stato più il solito indomani. E ancora. Le relazioni con l’altro sesso, d’allora in poi, non sarebbero state più insapori, artificiose, deludenti, quasi condannate al fallimento ancora prima di iniziare, no, non più così, d’allora in poi avrebbero acquisito sapore, impegno, serietà, comprensione, amore e quant’altro.

Suo padre era gallese e sua madre francese. Suo padre e sua madre si erano conosciuti in Francia, si erano sposati in Inghilterra. Una volta sposati, lei voleva andare a vivere nel suo paese; lui restare nel suo. Per evitare litigi, risentimenti e il rischio d’una separazione, decisero, contro la volontà delle rispettive famiglie, di andare a vivere per alcuni anni in un paese straniero e poi di ritornare. Ritornare dove: in Francia o in Inghilterra?

Comunque, andarono in Australia. Qui si fermarono nella prima città in cui sbarcarono: Perth. Il signor Barnes trovò un posto di lavoro come impiegato al porto di Fremantle; la signora Barnes, un’insegnante elementare, dovette seguire diversi corsi e passare diversi esami prima di trovare un posto in una scuola statale.

Il signor Barnes, oltre al lavoro al porto di Fremantle e agli impegni che lo legavano alla famiglia, faceva anche il musicista, suonava il clarinetto nell’orchestra locale; Antoinette Dubois, la signora Barnes, sin da fanciulla aveva sviluppato, grazie ad una eredità culturale di famiglia, un interesse particolare per la letteratura russa. Leggeva quando poteva tutto ciò che trovava a riguardo e non di rado si faceva mandare dei libri dalla Francia.

Max era nato a Perth il primo anno del loro arrivo. Era cresciuto con il suono del clarinetto nelle orecchie e con i lunghi racconti della madre sugli autori russi e coi commenti e le riflessioni che talvotta faceva suo padre quando sentiva la moglie parlare di quegli scrittori.

Un giorno, il signore e la signora Barnes, che avevano ormai messo da parte l’idea di ritornare in uno dei loro rispettivi paesi, si erano stufati di Perth, piccola e isolata dal resto del continente, e avevano deciso di spostarsi in una città più grande: Melbourne. Qui rimasero parecchi anni, per poi decidere di ritornare di nuovo a Perth. La capitale del Victoria era diventata troppo grande e rumorosa per i loro gusti. Perth era più piccola, sì, però più calma e meno inquinata dai rumori e dalle stravaganze del vivere. Avevano fatto bene, in un primo tempo, a lasciare Perth per Melbourne, e poi, a esperienza fatta, avevano fatto altrettanto bene a lasciare Melbourne e a ritornare alla loro piccola Perth, dove avevano mantenuto tante amicizie e dove si sentivano a loro agio.

Max non seguì i suoi genitori, rimase a Melbourne. Loro, anche se avrebbero desiderato che il figlio fosse ritornato con loro, non si opposero alla sua volontà. E così e per la prima volta, figlio e genitori si separarono.

Di Max si può dire che da bambino rideva molto; da ragazzo, quando aveva cominciato ad andare a scuola, rideva meno; da adolescente rideva pochissimo; da giovanotto poco o nulla; da adulto trentunenne dimenticò totalmente come si rideva e, se gli capitava di farlo, allora era un riso ipocrita, da attore.

Vai a capire perché, forse a causa dei racconti della madre, forse a causa della musica melanconica che suonava suo padre o forse per una sua predisposizione naturale, sin da giovane Max aveva scoperto di avere una sola vita da coltivare e da vivere. Questo per lui era importante. Sapeva, naturalmente, che c’erano anche quelli che pensavano di avere un’altra vita dopo questa e altri che credevano di morire e rinascere infinite volte. Max non faceva parte di quelli che ‘credono’, Max non era uno che credeva, era uno che pensava, e il suo pensiero lo riportava alla realtà e questa gli diceva che aveva una sola vita da vivere, poi più niente. E lui la voleva vivere in base al principio dell’oggi qui e domani nel nulla. Questo principio gli imponeva di trarre il massimo dal proprio tempo e dalla propria esistenza: perciò non sperperi, non compromessi, no mistakes. Ecco, quindi, il contratto.

Anche se nessuno gli aveva insegnato a sorridere col cuore, neppure, per quanto carini, i suoi genitori, Max era comunque un uomo generoso, sensibile e vedeva tutto con amore. Viveva, non esteriormente ma interiormente, con passione. Quando i suoi occhi si fissavano su qualcosa, animata o inanimata che fosse, provava un forte senso di “solidarietà fenomenica”, un condividere, consciamente o inconsciamente, quell’oggi qui e domani nel nulla. Amava tutto quello che era condannato a perire come lui, quell’inesplicabile destino con cui ogni specie o cosa, presto o tardi, si deve confrontare. Spesso si ripeteva mentalmente le parole di H. G. Wells:

“Un fato cieco, un vasto meccanismo impietoso sembra tagliare e dare forma al tessuto dell’esistenza, e noi tutti, umani e animali, con i nostri istinti e le nostre restrizioni mentali, siamo costantemente lacerati e sbriciolati senza pietà, inevitabilmente, in mezzo all’infinita complessità delle sue incessanti ruote.”

Stando le cose così, Max voleva, voleva proprio, in questo vasto cieco meccanismo in cui era finito senza un perché, dare un senso alla sua vita e forse strapparle anche qualche ora di gioia e di felicità.

 

Nel prossimo post: parte seconda

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