L’MG ovvero il Mostro Giustiziere
Gli homo camminavano per le strade tesi e circospetti. Se qualcuno si avvicinava a qualcuno, il suo cuore era già in subbuglio. Ai semafori, gli automobilisti, nonostante avessero i finestrini ermeticamente chiusi, si guardavano nervosi intorno, pronti a passare anche col rosso. Quando uno entrava in un negozio, in un bar, ovunque, se non era conosciuto, si creava subito un’atmosfera inquieta, di allarme. Nella testa dei presenti balzava la domanda: “Può essere lui?” Tutti avevano paura di tutti, il terrore si era ormai impadronito delle loro anime. L’Mg, infatti, avrebbe potuto essere chiunque e ovunque e, con lui, c’era poco da scherzare.
In una metropoli, in un lussuoso appartamento, due esseri si guardano in cagnesco. Parlano.
“Tu non sai neppure cosa siano i valori!”
“Di cosa stai bofonchiando?”
“Di valori, valori, valori! Conosci questa parola?”
“No!”
“Proprio quello che pensavo. Quelli come te non hanno valori.”
“Guarda caso, prima di arrivare qui, mi sono documentato, ho cercato i tuoi valori in tutto il mondo e in tutto il mondo non ho trovato altro che due cose che dominano su tutte le altre, e queste due cose sono sempre le stesse ovunque: soldi e potere. Gli avidi del tuo genere li adorano. L’etica, l’umanità, la rettitudine, di cui tu ti riempi la bocca, si trovano solo nello spessore del portafoglio e nel potere, ecco i tuoi valori.”
“Come mostro la sai lunga.”
“Come fai a sapere chi sono io?”
“Tutti lo sanno.”
“Chissà chi di noi due è il vero mostro.”
“Vattene!”
“In un mondo dove gli unici valori sono quelli della lussuria, si deve essere spietati”.
“Mostri!”
“Appunto!”
“Vattene!”
“Quando in una società l’assassino giudica l’innocente, questa società non è degna di esistere”.
L’Mg diede una zumata in giro per la casa e notò che l’oggetto più scalcinato costava centinaia di migliaia di dollari, poi ricordò coloro che si nutrivano di ciò che trovavano nelle discariche dei rifiuti, quelli che allungavano la mano all’angolo d’una via, che morivano letteralmente di fame e cambiò colore.
“Pensa quello che vuoi, ma non ammazzarmi”, si era messo a implorare l’altro tutto ad un tratto. “Prenditi tutto, tutto. Ci sono soldi, gioielli, diamanti, lingotti d’oro nella cassaforte, prenditi tutto, ma non ammazzarmi. La combinazione per aprirla te la do all’istante. Ti prego, non ammazzarmi!”
“Tutto quello che possiedi non l’hai sudato, l’hai rubato. E comunque io non mi nutro di tale merce.”
“Cosa vuoi allora?”
“Lo sai!”
“Così, a sangue freddo?”
“A sangue freddo.”
“Vedi che ho ragione,” disse l’altro mentre si avvicinava cautamente al campanello d’allarme. “Sei solo un mostro!”
“Così dicono.”
“Così sei: un mostro!”
Non c’era nessun altro in casa, solo loro. L’avido, passo dopo passo, si era avvicinato ad uno scrittoio e stava per far scattare l’allarme. L’Mg glielò impedì con un balzo fulmineo e con una mossa altrettanto fulminea gli tagliò la gola.
Il “villaggio globale” viveva ormai nel terrore. L’Mg poteva apparire da un momento all’altro in qualsiasi angolo della Terra. Tutte le forze di polizia erano impegnate a dargli la caccia, ma non c’era modo di prenderlo. Anche quando sembrava a tutti di averlo in pugno, riusciva sempre a farla franca. Per l’Mg, ogni homo rappresentava un criminale in potenza. Una sua caratteristica era di lasciare sui corpi dei malcapitati un bigliettino con la scritta: “Tranquillizzatevi, fateci l’abitudine, tanto gli Mg si moltiplicheranno”. Poi si firmava “Mg”, il Mostro giustiziere, col sangue della vittima appena uccisa.
Si muoveva nel mondo alla velocità della luce. Gli homo erano terrorizzati solo a sentirne il nome. Potevano essere uccisi da un istante all’altro e senza un perché. L’ombra dell’Mg li inseguiva ovunque, anche nel proprio letto.
Quella volta, in un giardino poco affollato, l’Mg aveva avvicinato un bambino. Non gli era stato difficile farlo: due parole e un sorriso ed eccolo che se l’era già fatto amico e aveva iniziato a mostrargli delle fotografie.
“Sai chi è questo?”
“Sì,” rispose il bambino lesto. “Tutti lo sanno. È quello che ha vinto il Gran Premio automobilistico”.
“Sai anche quanto guadagna all’anno per girare intorno ad una pista recintata col suo macinino?”
“Cos’è un macinino?”
“È la sua macchina da corsa.”
“Non sapevo che si chiamava macinino.”
“Adesso lo sai.”
“Sì, adesso lo so.”
“Sai allora quanto guadagna quello che ha vinto il Gran Premio automobilistico?”
“No, questo non lo so.”
“Te lo dico io. Guadagna, in un solo anno, più soldi di quanto tuo padre e tua madre guadagnano in tutta la loro vita. E non solo loro. Puoi metterci anche i tuoi nonni e i tuoi bisnonni e tutta la loro stirpe messa insieme. Guadagna tutti questi soldi facendo solo giri e giretti col suo macinino intorno ad una pista recintata. A te, che sei la voce dell’innocenza, pare giusto?”
“No.”
“Neanche a me. E questo chi è?” e mostrò al bambino un’altra fotografia.
“Un calciatore. Quello che ha fatto più goal quest’anno.”
“Sei informatissimo!”
“Sì, papà m’insegna i loro nomi ogni sera.”
“Ti ha detto anche quanto guadagnano questi tiracalci?”
“Chi sono i ‘tiracalci’?”
“Quelli che corrono dietro al pallone per prenderlo a calci”.
“Non ci avevo mai pensato”.
“Tuo padre ti ha detto quanto guadagnano i tiracalci?”.
“No.”
“Lavora in fabbrica tuo padre?”
“Sì.”
“La domenica cosa fa?”
“Quando non va allo stadio, guarda la partita in televisione. Se usciamo, l’ascolta alla radio che porta sempre con sé.”
“E tu sei orgoglioso di un padre come il tuo?”
“Tanto. Voglio fare anch’io come lui quando sarò grande.”
“Cos’altro fa tuo padre, la domenica?”
“Spesso si bisticcia con la mamma.”
“Capisco,” fece l’Mg e, senza perdere altro tempo, lo uccise, poi lo sdraiò su una panchina e se ne andò.
Qual era, dopotutto, il futuro di quel piccolo infelice? Lavorare come un animale da soma per gli avidi, fare figli, andare eventualmente a fare casino in giro con la macchina come il padre tutte le volte che la sua squadra vinceva e bisticciarsi con la moglie quando si fosse sposato. Insomma!
L’indignazione degli homo, non appena veniva annunciata l’ultima vittima del Mostro giustiziere, era totale, globale. Il popolo non credeva più alla polizia, ai suoi governanti, a nessuno. Quando bambini venivano uccisi senza un perché, quando coppie venivano uccise senza un perché, quando vecchi, donne incinte e persone di qualsiasi strato sociale venivano eliminate senza un perché e la polizia non riusciva ad acciuffare l’assassino, non c’era più dubbio: l’Mg era imprendibile. In giro per il mondo, c’era uno svilimento, un senso d’impotenza. La vita stava diventando un incubo. Alcuni pensavano, e forse giustamente, che non ci fosse un solo mostro. Altri incominciavano a dubitare del proprio vicino e altri ancora dei propri familiari. Era finita la fiducia negli altri e l’homo era diventato un killer per l’homo.
“Quante volte hai borbottato il mio nome in questo putiferio?”
“Tantissime.”
“E sempre in modo obiettivo?”
“Qui non esiste l’obiettività.”
“Però voi dite il contrario.”
“È il nostro mestiere.”
“Di raccontare balle?”
“Se vuoi chiamarle così.”
“Tu come le chiameresti?”
“Le cose che i mortali vogliono sentire.”
“Idiozie!”
“Sono tutte idiozie.”
“Incluso il tuo lavoro?”
“Incluso il mio lavoro”.
“Allora perché lo fai?”
“Perché mi pagano”.
“Farai strada.”
“La mia strada finisce qui e ora.”
“Come fai a saperlo?”
“Di tutti quelli che sono venuti in contatto con l’Mg, nessuno si è mai salvato finora.”
“Tu sarai il primo,” disse l’Mg e sparì.
“La specie bipede odia e si odia”, andava riflettendo. “In famiglia si odiano tutti, si derubano a vicenda, si raccontano bugie, s’ingannano. Quando uno di loro crepa, i rimanenti si cavano gli occhi l’un l’altro per impossessarsi di ciò che possedeva il morto. Nella comunità dove la famiglia vive, tutti diventano cibo l’uno per l’altro. Si fregano, si stuprano, s’insultano, si odiano, si ammazzano, si sfruttano, si maledicono l’anima. L’invidia regna ovunque. Il paese che li unisce tutti sotto un unico colore e che chiamano “madrepatria” è la cosa più abominevole: non ce n’è uno che, se potesse, non la metterebbe nel culo al suo connazionale. È questo ribrezzo del vivere insieme che gli homo, orgogliosi, chiamano “madrepatria!” Se, poi, si esce dalla “madrepatria” s’incontrano altre “madrepatrie” e tutte, nessuna esclusa, odia, sprezza e critica l’altra. Ogni paese controlla le proprie frontiere a colpi di cannone, basta un nulla e si va subito alle armi. Tutto il mondo puzza di cadaveri ammazzati. È proprio una bella specie la specie homo.”
Un giorno l’Mg entrò in un’aula di tribunale. Seguì il processo in corso. L’accusato aveva ucciso una poveretta per qualche spicciolo. Il giudice, alla fine del processo, gli diede solo qualche anno di carcere.
Puntuale, quella sera stessa, l’Mg andò a fargli visita in prigione.
“Come stai?”
“Uno schifo.”
“Quante persone hai fatto fuori?”
“Una sola.”
“Cosa ti aveva fatto?”
“Niente.”
“Prima di ucciderla, sapevi che lei non c’entrava per nulla con la tua miseria?”
“Non so di cosa parli.”
“Sei così deficiente?”
“Cosa?”
“Non ha importanza. A proposito, sai che il popolo non si può più permettere il lusso di nutrire criminali?”
“Perché?”
“Te l’ho detto, deve mantenerli.”
“Non gli costo molto.”
“Invece sì.”
“Viviamo in un paese dove non esiste la pena di morte.”
“Vuoi dire che non esisteva!”
“L’hanno riammessa?”
“Proprio in questi giorni.”
“Non ti capisco.”
“Sai che si devono pagare gli addetti ai lavori, guardie, cuochi, dottori e mille altre persone ancora per tenerti in vita?”
“E cosa vuoi che me ne freghi?”
“A causa tua si devono pagare anche più tasse.”
“E cosa vuoi che me ne freghi?”
“Sai che il mondo è sovrappopolato?”
“E cosa vuoi che me ne freghi?”
“A te, infatti, non te ne frega proprio nulla, vero?”
“Verissimo.”
“Anche se il mondo rimanesse dall’oggi al domani senza un solo homo, io non ti risparmierei lo stesso” e gli piantò il pugnale nello stomaco.
“Nessuno degli animali, di quegli esseri che non fanno parte della razza homo, nel loro regno, ha combinato tanti disastri tra la propria specie quanto l’homo. Non riesco a trovarne uno solo di essi, andava riflettendo l’Mg, che si avvicini anche minimamente per crudeltà e distruttività agli avidi. Questi, per come si comportano, oltre a far fuori se stessi, annichiliranno prima o poi anche il sasso che li ospita”.
Era una bellissima mattinata di fine autunno. Il cielo, un grande dipinto liscio e blu sopra la testa; i prati, un tappeto verdeggiante. C’erano tanti cani che abbaiavano e che correvano a più non posso dietro un animale che si era infilato nel bosco. Dietro i cani, al galoppo, dei cavalieri con lo schioppo in mano. Uno di essi, allontanatosi dal gruppo senza rendersene conto, si era perso nella boscaglia. Ad un certo punto, era sceso da cavallo e si era seduto su un tronco aspettando che qualcuno lo trovasse. L’Mg si era avvicinato a lui.
“E tu saresti il figlio di quella meretrice che aveva disertato il letto matrimoniale e scopava con mezzo mondo?”
Il giovane seduto sul tronco non era sorpreso né meravigliato di vedersi, così all’improvviso, quell’uomo di fronte a lui. Non si scompose neppure, tanto meno apparve offeso dalle sue parole. Rispose dicendo: “Nessuno si è mai permesso di definire in questo modo mia madre”.
“Io posso permettermelo. Sono l’Mg, il tribunale mobile” (alcuni, infatti, l’avevano chiamato anche così: il tribunale mobile). E proseguì dicendo: “A tuo padre invece hanno insegnato a sorridere e pare che debba farlo anche quando avrebbe voglia di piangere”.
“Questo lo dice lei”.
“Tua nonna e tuo nonno, anche se regnano ma non governano, in realtà poi lo fanno”.
“Molto acuto”.
“Grazie!”
“Non c’è di che”.
“E così tu apparterresti a quei bipedi che hanno sangue freddo e violenza mirata?”
“È quello che si dice di noi”.
“Lo sai che, per possedere tutto ciò che possiedi, migliaia e migliaia di persone devono fare la fame?”
“Lei è una persona impertinente e maleducata”.
“E non solo”.
“Sentiamo cos’altro?”
“Trovi che sia normale che quando due bambini nascono uno sia già padrone di mezzo mondo e l’altro affoghi nella fame?”
“No, lo trovo ingiusto”.
“Hai fatto qualcosa per riparare?”
“No”.
“Per come si sono messe le cose, tu saresti dunque l’erede al trono della lussuria?”
“Lei continua ad offendere il nome della mia famiglia”.
“La tua famiglia è una famiglia di avidi, di parassiti, di vampiri, giovanotto. Si nutre succhiando il sangue al prossimo”.
“Questo lo dice lei. La mia famiglia è di stirpe nobile”.
“E di sangue reale”.
“Proprio così”.
“Le vostre nobiltà, ricchezze e sangue reale, pupazzo, ve le siete conquistate tagliando teste e dissanguando quelli il cui sangue era un milione di volte più degno e più nobile del vostro!”
“Io non ho tagliato teste, tanto meno ho dissanguato qualcuno”.
“E qui la tua lingua delude molto”.
“Non siamo fatti per averla tutti uguale”.
“Questo è vero”.
“Bene”.
“La ‘realtà’ della tua ‘regalità’, però, non te la insegna nessuno; ti insegnano le solite castronerie e tu ci credi”.
“Ho capito. Lei è un ciarlatano, un cinico. Mi rifiuto di darle retta”.
”Invece tu non hai capito proprio niente. Anch’io mi sono stufato” e lo uccise.
“Solo annegando i miei giorni nel crimine e nel vomito riesco a tenermi in piedi tra questa abominevole razza. La mia fatica di ogni istante è di evitarla tanto quanto posso, ma non ci riesco. È dura la vita per uno come me”, rifletteva l’Mg.
“Perché,” ha chiesto a bruciapelo ad uno del popolo, “perché sei andato al comizio di questa banda di sciagurati?”
“Perché tra di loro c’era anche il mio leader.”
“Il tuo leader?”
“Sì, il mio leader.”
“Tu non hai mai avuto un leader, un partito, una combriccola che proteggesse le tue chiappe. Il tuo leader rappresenta solo se stesso e la sua banda. Lui ti sfrutta e basta.”
“Ti sbagli.”
“Allora non hai proprio capito un cavolo di demagogia.”
“Questo lo dici tu.”
“Tu non rappresenti il popolo, tu sei la vergogna del popolo,” e lo uccise.
Un giorno alcuni homo videro l’Mg in un cimitero. Indossava un mantello color sole al tramonto. Andava da una tomba all’altra. Non degnava neppure di uno sguardo le tombe monumentali, gli interessavano quelle isolate e senza fiori. Su ognuna di esse, nonostante lo sprezzo che aveva sviluppato per gli homo, ci stillava sopra una lacrima. Continuò, dicevano, per tutto quel giorno a mettere rose su quelle tombe che ne erano prive, fino a quando non ebbe svuotato il van pieno che aveva comprato quel mattino al mercato. Sulla tomba del Milite Ignoto, a quanto pare, aveva cagato e pisciato. Strano, però, nessuno di tutti quelli che l’avevano visto, aveva avvertito la polizia.
“Da dove sei sbucato?”
“Che te ne importa?”
“Chi sei?”
“Mi chiamano così e così.”
“Cosa vuol dire ‘così e così?’ ”
“Niente.”
“Sei un niente, allora?”
“Qualcosa del genere.”
“Cosa vuoi?”
“Farti alcune domande.”
“Inizia.”
“Perché, di fronte a quelli che ti nutrono, ti comporti da stronzo?”
“Da come parli, si vede che non te ne intendi molto del mio mestiere.”
“Perché, e sii sincero, prima sputi e cachi in un piatto e poi ci mangi dentro?”
“È il mio mestiere.”
“Vuoi dire che il tuo mestiere è quello di renderti repellente?”
“Come ti permetti? Ti farò spaccare il muso!”
“Ti consiglio di calmarti, canaglia, perché qui, prima che arrivino le tue teste di cuoio, tu sarai diventato sporcizia per l’eternità. Rispondi alla mia domanda: perché sei così repellente?
L’altro capì. Rispose. “Te l’ho detto, nel mio mestiere si fa così, ma tu non te ne intendi.”
“Di cosa?”
“Del mio mestiere”.
“Hai ragione. Ho sempre sbagliato, a chiunque abbia dato il mio consenso, perché tutti quelli della tua risma oggi dicono una cosa e domani se la rimangiano.”
“Bravo, ora sì che incominci a capire come funzionano le cose, quelle che contano.”
“Quelle che contano, hai detto?”
“Sì.”
“Al nocciolo, dunque, per te, le altre cose non contano?”
“Se continui in questo modo, mi ruberai il mestiere.”
“Quindi, eccetto la tua avidità e la tua ambizione, null’altro conta per te?”
“Tutto conta e nulla conta.”
“Adesso divieni enigmatico.”
“Fa parte del mio mestiere.”
“Faceva parte, adesso non più” e gli piantò il pugnale nella bocca.
“Nonostante il disastro globale che l’homo è, si crede il figlio d’un dio, il re del pianeta. Di fronte a tanta assurdità, io faccio fatica a ragionarci sopra. L’essere homo non è giudicabile, è SOLO CONDANNABILE e io, con il mio tribunale mobile, lo condanno!”
Il gallo cantò tre volte e, dopo il terzo chicchirichì, si aspettava, come sempre, la pappa. Qualcosa, però, quella volta, era andata storta e, il signor gallo, invece di sbaffare la sua pappa, era diventato lui stesso pappa. Ha ha ha: la logica che si sono inventati gli homo non funziona sempre, andava ridacchiando il Mostro giustiziere dopo essersi ricordato di quella storia, mentre proseguiva sempre più speditamente per le strade della città. Arrivato a destinazione, vale a dire nello studio del barone dell’università di Fanziburgo, disse:
“Cosa insegni?”
“Tutti lo sanno cosa insegno”.
“Io no. Rispondi alla mia domanda!”
“Cosa vuol dire rispondere alla tua domanda? Le domande, di solito, le faccio io”.
“Non adesso. Adesso sono io che le faccio a te. Tu devi solo rispondere”.
Il barone capì, gli parve di capire con chi aveva a che fare. Scolorì, fece “Qual era?”
“Cosa?”
“La domanda?”
“Cosa insegni?”
“Storia.”
“E cosa racconti ai tuoi studenti?”
“I fatti storici.”
“Cioè?”
“Parlo di re faraoni imperatori papi tiranni principi primi ministri regine pirati sacerdoti presidenti generali despoti, pensatori, insomma parlo di coloro che hanno fatto la storia del mondo in cui viviamo.”
“Sembri orgoglioso di loro.”
“Perché non dovrei esserlo?”
“E se uno ti dicesse che non sono loro i veri protagonisti della storia, ma il popolo, cosa risponderesti?”
“Risponderei che un pensiero del genere può venire solo da un pazzo.”
“Allora dì anche ai tuoi studenti che sono stati loro, proprio loro, a creare la civiltà assassina in cui viviamo?”
“Che la nostra civiltà sia assassina lo dici tu, non io.”
“Certo, tu non puoi dirlo. Ci vivi bene, tu, in questa civiltà, anzi, ci vivi molto bene.”
“E anche se così fosse?”
“È già tutto detto”.
“Infatti”.
“Dovresti ribellarti invece”.
“Perché dovrei?”
“Perché conosci”.
“Sei un idealista”.
“No, un realista”.
“Non sei solo un mostro, a mio parere”, tagliò corto il barone, “sei anche un povero pazzo”.
“Io non lavoro per ideologie false.”
“Io sono libero di dire quel che voglio.”
“Tu sei solo libero di strombazzare la merda del sistema per cui lavori.”
“Ma tu che diavolo vuoi da me?”
“Farti fuori” e gli piantò il pugnale in testa.
Prima di rispedirlo al magma da cui proveniva, l’Mg avrebbe voluto dirgli che i suoi padroni, oltre ad essere falsi e megalomani, avevano anche inquinato il Pianeta a tal punto che l’aria che si respirava, l’acqua che si beveva, gli alimenti che si mangiavano erano ormai veleno, ma poi cambiò parere. A cosa sarebbe servito?
Gli homo continuavano a fermarsi, a guardare, a fare capannello, a fare smorfie. Non capivano perché quel tipo piangeva. Dai suoi occhi continuavano a sgorgare lacrime e ai suoi piedi c’era già una piccola pozza. Ma perché piangeva? Non ne avevano idea. Aveva un’aria sconsolata. Poi, il tipo dall’aria sconsolata, che non guardava nessuno e a cui quelli che lo circondavano gli stavano già da un pezzo sul culo, con uno scatto d’ira si alzò spaventando tutti. Dopo aver dato un’occhiata rancorosa alle scimmie che gli stavano intorno, fece ruotare sulle spalle il suo mantello color sole al tramonto e poi sparì. Quelli rimasti videro che nella piccola pozza di lacrime c’era un pulcino. Ecco perché si disperava tanto quell’essere, per un pulcino morto!
“Perché te la sei squagliata dopo aver investito quel ragazzo?”
“Tu come fai a sapere che l’ho investito io?”
“Ero lì. Ti ho visto, ho preso il numero della tua targa.”
“E con questo?”
“Ti pare il modo di comportarti?”
“Lo fanno i generali dell’esercito, lo fanno i signori, lo fanno tutti! Perché non dovrei farlo anch’io?”
“E se gli altri si buttano in un burrone, lo fai anche tu?”
“Io sì. Io copio alla lettera quelli che stanno in alto, perché quelli che stanno in alto sono i più furbi, i più ricchi, sono quelli che rubano uccidono hanno potere e nessuno li condanna mai e, credimi, non si buttano nei burroni, loro, ma fanno in modo che si buttino gli altri.”
“Bella risposta!”
“Mi fa piacere che tu l’abbia apprezzata”.
“Quindi sono i tuoi modelli?”
“Proprio così.”
“Anche se il tuo modo di pensare è marcio, ti risparmio la vita,” disse l’Mg e sparì.
La sua filosofia andava oltre l’anarchismo, oltre il nichilismo, oltre qualsiasi tipo di credenza. L’Mg non aveva un credo, anche se in ogni suo atto non poteva fare a meno di manifestarne uno. Era convinto che si viveva in un mondo dove non c’erano veri “credo” né veri “valori”. I cosiddetti “valori” erano valori di esproprio, di menzogne, di buffonerie. In quel voltastomaco sociale in cui viveva, non c’era una sola cosa di fabbricazione homo che lui rispettasse. Era convinto che qualsiasi extraterrestre di passaggio sulla terra, dopo aver studiato e capito la società degli homo, l’avrebbe distrutta senza esitazione, se ne fosse stato all’altezza. Il Mostro giustiziere non aveva più dubbi, gli homo si stavano addentrando sempre di più in un mondo di tenebre e il loro obiettivo finale, che lo sapessero o no, era la loro stessa autodistruzione.
“Cosa facevi prima di essere presidente?”
“Lavoravo in banca.”
“Vuoi dire in una compagnia di ladri istituzionalizzati?”
“Se vuoi definirla così.”
“Tu come la definiresti?”
“Non ci ho mai pensato.”
“Per convenienza?”
“Può darsi.”
“Interessante il tuo lavoro?”
“Sì.”
“Hai rubato?”
“Solo qualche volta. È da sportivi rubare, qui da noi.”
“Hai imbrogliato?”
“Solo qualche volta. È da sportivi imbrogliare, qui da noi.”
“Hai mentito?”
“Come tutti, per convenienza. È da sportivi mentire, qui da noi.”
“Tu sei molto sportivo?”
“Quando posso, non mi nego questo svago.”
“All’inizio eri solo un piccolo contabile, corretto?”
“Proprio così non direi.”
“Ne hai fatta di strada!”
“Non mi lamento.”
“E adesso sei diventato il presidente di questa massa invertebrata”.
“Io non la chiamerei così.”
“Come la chiameresti, tu?”
“Come posso chiamare massa invertebrata proprio quella che mi permette la vita che faccio?”
“Non ti manca nulla, vero?”
“Verissimo”.
“Hai ragione, non puoi chiamarla massa invertebrata anche se massa invertebrata è”.
“Vedi che ci capiamo, noi due”.
“Infatti. Ed è vero anche che ora stai cercando di motivarla a credere in valori di appartenenza?”
“Non pensi che sia una buona idea?”
“Per loro o per te?”
“Che importa?”
“Hai finito di fare il presidente, contabile!” e lo accoppò.
L’Mg continuava a seminare il terrore in giro per il mondo. Poteva presentarsi a qualsiasi persona e in qualsiasi luogo senza essere visto né sospettato. La polizia, anche se non smetteva di dargli la caccia, in realtà sapeva che non sarebbe mai riuscita a mettergli le mani addosso. Con un essere i cui poteri andavano oltre quelli degli avidi, c’era proprio poco da fare. Lui, intanto, libero di comportarsi come gli pareva, proseguiva nelle sue avventure.
“Bellezza, quanto ti costa sdraiarti su quel sofà?”
“That’s none of your business!”
“Non parlare arabo. Rispondi alla mia domanda, quanto ti costa?”
“Duecento dollari.”
“E per quanto tempo, con duecento dollari, riposi le tue chiappe sul sofà?”
“Per quarantacinque minuti.”
“Lo sai che con i soldi che tu dai per una sola seduta allo strizzacervelli, un’intera tribù africana mangerebbe per mesi?”
“I don’t give a fuck for the black people!”
“Ti ho detto di non parlare arabo, altrimenti mi farai perdere la pazienza”
“Cosa vuoi?”
“Voglio farti sentire una merda.”
“Perché?”
“Allora non hai capito proprio nulla?”
“No!”
“Il mondo, nel caso tu non lo sapessi, non è stato fatto per nutrire e divertire solo quelle come te!”
“Sei un insolente. Fila, adesso, altrimenti chiamo il mio analista.”
“Lo ‘strizza’ ha appena iniziato il suo sonno eterno.”
“Cosa?”
“Riposa nel mare di tenebre dov’è finito.”
“Cosa, cosa?”
“È ritornato alle origini.”
“Ma che stai dicendo?”
“E adesso tocca a te” e le piantò il pugnale nel ventre.
“Coloro che sostengono che il mondo è bello, sono quelli che fanno fatica a separare i fatti dalla finzione. Tra di essi ci sono quelli che vantano l’obbrobrioso comportamento degli avidi. In realtà, poi, sono loro, proprio loro, quelli che vantano l’obbrobrioso comportamento degli avidi, che si nutrono della propria specie: la derubano, la usano, la stregano, la uccidono oppure, se la tengono in vita, lo fanno per il proprio tornaconto. Il loro fare nei confronti degli altri è cannibalesco; un cannibalismo sottile, astuto, invisibile, il loro: c’è, ma non si vede. Il mio è un lavoro ingrato!”, finì per pensare l’Mg.
“Si sta bene qui”.
L’uomo, vestitissimo, seduto sul suo cadreghino, si girò, vide un tipo a qualche passo da lui. Ebbe paura, ma non la manifestò. Disse: “Come hai fatto ad entrare?”
“Ho un passe-partout”.
“Fila!”
“Cosa?”
“Adesso chiamo le mie guardie.”
“È inutile, dormono tutte profondamente.”
“Ora so chi sei. Ti do tutto quello che vuoi.”
“Tu non hai proprio nulla che io desideri.”
“Non appartieni alla mia razza, tu.”
“No”.
“Eppure cammini su due piedi.”
“È proprio questo quello che più mi offende e mi disgusta. A volte cerco di camminare su quattro, ma non ci riesco per molto.”
“Continua a farlo e ci riuscirai. Dopo tutto, all’inizio era così”.
“Già”.
“Potrei fare qualunque cosa per te. Basta che tu dica ciò che vuoi, e l’avrai.”
“Purché ti risparmi la vita?
“Certo, purché mi risparmi la vita”.
“E come potrei? Tu rappresenti la vergogna dell’homo”.
“Questo lo dici tu”.
“Ascolta, io ho percorso palmo a palmo non solo la terra, ma tutto l’universo. Ho visto cose, come giustamente dice l’androide di Blade Runner, che tu non ti puoi neppure minimamente sognare, però devo ammettere che un lurido individuo come te non l’avevo ancora mai visto. Sei una creatura immonda. Con quale coraggio puoi rappresentare l’ideologia che più ha portato vergogna e distruzione prima al tuo paese e poi al mondo intero?”
“Io rappresento ciò che voglio”.
“Anche se ciò che vuoi è infamante?”
“Anche se ciò che voglio è infamante” e l’uomo seduto sul cadreghino si alzò.
“Creature come te non sono degne di esistere… Dove te la stai svignando, vigliacco?”
“Lasciami andare.”
“In che luogo?”
“Non nel tuo.”
“Non ce n’è un altro per te. Domani, le tue budella, se vuoi proprio saperlo, penzoleranno dal tuo corpo nella più grande piazza della tua città, ecco come e dove andrai a finire” e con un colpo da maestro, col suo ormai famosissimo pugnale, gli aprì la pancia.
“Chi è, dunque, l’animale più odiato della Terra? L’homo. Pare che per nutrirlo si uccidono nel mondo ventimila bestie al secondo. Tutti gli altri animali, nessuno escluso, lo detestano. E non solo loro. Gli alberi, nessuno escluso, lo detestano; la terra, nessuna zolla esclusa, lo detesta; l’aria, le montagne, i pianeti lo detestano, il mondo intero lo detesta. Ormai anche la materia inanimata ha capito chi è il suo peggior nemico, sa che è una questione di sopravvivenza: essa o lui. I prati, senza erba e senza fiori, sono spelacchiati e brutti; le montagne, senza neve e senza uccelli che volteggiano sulle cime, sono grigie e spaventose; la campagna, senza alberi e senza animali, non piace a nessuno; i mari, morti e in via di prosciugamento, sono uno spavento; insomma, la terra, priva dei mari, dei fiumi, della fauna, della flora, dei suoi paesaggi, che terra è? Tutta la natura detesta l’homo killer. Tacitamente o palesemente, ogni cosa si ribella contro questo distruttore del pianeta. A tutti sta sul culo, perché sanno che questo aborto finirà per annientare il Pianeta Blu e insieme ad esso tutto ciò che vegeta e respira. Ecco l’odio che si è attirato su di sé l’homo. Dove c’è lui, nulla vive; dove c’è lui, tutto è condannato a perire. Tutti gli elementi che compongono la materia inanimata e animata l’hanno in orrore. Chiunque si trovasse di fronte alla scelta se lasciare in vita un nido di vipere o il cosiddetto genere homo, non esiterebbe un solo istante nella sua scelta”.
Un giorno l’Mg, stanco e stufo di tutto, si era incontrato per caso con uno strano personaggio. Addobbato com’era, sembrava più a uno spaventapasseri che a un homo. Anche lui era in giro per il mondo. Quella sera l’Mg gli si era presentato di fronte. Questi non si era per nulla intimorito, anzi, era parso rallegrarsi della sua presenza. Gli disse:
“Sei un angelo inviato dal Signore?”
“Cosa?” fece l’altro.
“Ti ha mandato il Signore?”
“Il signore?”
“Sì, sì, il Signore sicuramente ti ha inviato da me. Grazie, grazie mio Dio per esserti ricordato del tuo servo”.
“Cosa sta dicendo?” si chiese l’Mg. Le domande usualmente le faceva lui, ma con costui si erano invertiti i ruoli.
“Parla lentamente, ti prego. Raccontami. È una vita che ti aspetto. Mi chiamerà presto a lui?”
“Ma di che diavolo sta cianciando?”, fece ancora più sorpreso L’Mg.
“Sia benedetto l’Onnipotente. Ah, che bellissimo gesto da parte di Colui che tutto vede, tutto può e tutto capisce”.
“È proprio matto”, borbottò tra sé e sé l’Mg.
“Dammi, dunque, messaggero del Signore, dammi la buona novella. Sono pronto a riceverla anche se è brutta”.
“Di quale novella stai parlando?” disse l’Mg sempre più spiazzato.
A questo punto il personaggio si ravvide per un istante, guardò l’Mg, vide che non aveva le ali, che non era uno spirito, disse: “Allora, se non sei un angelo, sei un demonio?”
“Chi?”
“Belzebù?”
“E chi è?”
“Un demonio”.
“Tu non parli una lingua come tutti gli altri, corretto?”
“Forse”.
“Che lingua è la tua?”
“Quella dello Spirito Santo”.
“Cosa?”
“Hai sentito bene ciò che ho detto”.
“Sì, ho sentito, hai ragione, ma non ho capito. Sei un marziano, per caso?”
“Può darsi”, disse il personaggio cercando di capire con chi aveva a che fare. Quell’Essere piombatogli così, lì nella sua suite, non poteva essere non importa chi. Mentre lo fissava, gli ricordava qualcosa, qualcuno.
“Allora capisci anche cosa vuol dire bau bau?”
“Anche questa lingua fu creata dal Signore”.
L’Mg, dopo queste poche battute con quel tipo, era stato preso dal disgusto. Quella creatura addobbata come uno spaventapasseri, l’aveva deviato dai suoi piani. Non l’ammazzò. Quell’homo, e vai a capire perché, gli incuteva ribrezzo. Prima di andarsene però, gli assestò comunque un calcio nel sedere mandandolo bocconi per terra. L’altro, appena ripresosi dalla botta, si era messo ad urlare e a chiamare gente dicendo che aveva appena appena incontrato il Figlio dell’uomo!
Così andavano le cose, ma non per il Mostro giustiziere. Questi si sentiva ormai senza patria, senza terra, senza idoli, senza identità: un pianeta devastato e privo di Astro. Il mondo in cui viveva, corrotto e imbrattato com’era dalla volgarità e dalla barbarie, non poteva fare più nulla per lui. Vomitava e vomitava e vomitava, non c’era più un solo posto sul pianeta dove lui non avesse rovesciato le budella. Era tutto così squallido, patetico, così atrocemente squallido e patetico che non c’era più modo di cambiare nulla. La colonna sonora di fondo era definitivamente composta da insopportabili stridii; la bellezza naturale solo il ricordo di una volta. Il suo essere crudele, e questo l’Mg lo sapeva, era dovuto alla sua miseria interiore, ma non sapeva più come rimediare a quell’inferno che lo rodeva dentro notte e giorno, eccetto viaggiando e ammazzando e questo, forse, finché fossero rimasti luoghi in cui andare e bipedi da accoppare.
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