Non tutto ciò che succede nel Paese delle meraviglie viene per nuocere

Orazio Guglielmini scrive a Rossi.

Vorrei iniziare questo racconto, Rossi, raccontandoti, anche se brevissimamente, per quali vie ardue sono arrivato a conoscerti. Lo so, ti avevo dato altre spiegazioni, ma questa, credimi, è stata determinante. Tu sei, e non ci crederesti, tu sei la mia fortuna! Sì, Rossi, è stata una vera fortuna incontrarti. Se non ti avessi incontrato, quella sera fuori dalla scuola, pensi che avrei scritto questo libro?

Ebbene, prima d’iniziare a distribuire io stesso i miei libri a chi li voleva leggere, ho provato a farlo fare alle case editrici, loro compito e mestiere. Queste, però, nel Paese delle meraviglie, pubblicano solo i geni, quelli all’altezza di scrivere auliche lettere e, dato che io non appartengo a questa casta, non hanno mai pubblicato un mio racconto. E come avrebbero potuto? Forse sono un genio, io?

Come seconda alternativa, m’indirizzo alle agenzie letterarie: tutte a pagamento, of course! Okay, mi sono detto, visto che le cose funzionano così nel Paese delle meraviglie, così sia.

Mi sono scelto, non quella meno costosa, ma quella che mi era parsa la più coerente con le sue proposte. Le invio un dattiloscritto. Alleluia! Piace. Mi si dice che è pubblicabile, che si venderà bene, che diverrà un best-seller! Dovrò, però, partecipare alle spese di pubblicazione.

Incontro la mia agente letteraria, la dottoressa Smerdapane, laureata in musicologia, dell’Agenzia Letteraria Europea Smerdapunto, situata nella via Trapane, nella città di Borino.

La Smerdapane mi piace subito. Il suo modo di parlare è accattivante. È anche fascinosa. Si muove come un grillo, a salti e scatti, fantastica. Intuisco che le piace parlare. Perfetto. A me piace ascoltare. L’ascolto.

“Li recupererà in meno di due anni i soldi che investe e poi tutto il resto sarà denaro che andrà in tasca sua, pulito”, mi dice. “Pensi anche alla sua fama. La tradurranno in tutte le lingue. Diverrà famoso. Hollywood comprerà i diritti per fare un film del suo bel romanzo.”

E qual è la somma che dovrei…?, chiedo colpito e timido.

“Una fesseria. Un numero che resta tra l’1 e il 5 e poi ci aggiunga 4 zeri, in euro naturalmente.”

Si esprime così, lei.

Ci faccio un pensierino su questo numero che resta tra l’1 e il 5 più 4 zeri. Concludo che, in questo mondo, non si ottiene niente per niente e che bisogna, a volte, anche rischiare. Mi decido. Pubblico.

Trascorre qualche tempo dopo la pubblicazione del mio primo romanzo dal titolo “Un fiasco annunciato”, però, di libri non se ne è venduto neppure uno. Proprio un fiasco! La dottoressa Smerdapane insiste dicendomi che se pubblicassimo un altro mio dattiloscritto la vendita prenderebbe il via.

“Ne venderemo molti!” sibila scattante.

È convintissima. Di fronte a tanta fiducia, io mi sento disarmato. E poi tu capisci, Rossi, è così carina, così accattivante, bella, fantastica!

Ne pubblichiamo un altro e un altro e un altro ancora, però di vendite, anche se i titoli dei nuovi romanzi sono scattanti come la dottoressa Smerdapane, ebbene, anche con titoli così scattanti, come, ad esempio, “Passerottino mio ti voglio tanto bene”, di vendite non se ne parla. L’editore è sconvolto, almeno così mi è parso al telefono. Non è riuscito a vendere neppure una sola copia, mi ha detto. Forse stampa unicamente quelle poche copie che dà a me, mi è venuto da pensare.

E così, col tempo, tutto si era stabilito, andavo dalla dottoressa Smerdapane solo a portarle dei soldi. La trovavo sempre sola. Parlava, of course, sempre lei. Io ascoltavo. Mi faceva delle conferenze. Per dirti la verità, Rossi, capivo molto poco di quello che diceva. Ma non era questo il punto. Il punto era che lei parlava e io ascoltavo. E parlava, parlava, parlava. Che io capissi o non capissi quella sua emorragia di parole, non la interessava. Non penso. Quindi parlava, parlava di progetti, di diritti, di investimenti nella pubblicazione, nella distribuzione e dell’importanza delle relazioni. Del contenuto dei libri? La Smerdapane stroncava categoricamente questa idea. Il contenuto nella società in cui viviamo si era perso già da tempo. Sguazzavamo tutti nel nichilismo più nero, nella superficialità più squallida. L’importanza non era il contenuto, l’importanza era il progetto, una bella copertina, le relazioni, gli investimenti, i soldi. Money, money, money!

“Però, nonostante tutte queste sue belle idee, parole, cose, i miei libri continuano a non vendere,” mi azzardai.

“Li venderemo!” scattò lei. E proseguì a parlare, a parlare, a parlare.

Capitava che aprissi bocca solo quando arrivavo nel suo ufficio e quando poi andavo via. All’arrivo dicevo: “Salve, dottoressa Smerdapane” e quando andavo via: “Alla prossima volta, dottoressa Smerdapane.” Rarissimamente riuscivo a dire altro e quando riuscivo era, il più delle volte, per chiederle quanti soldi avrei dovuto portarle nel nostro prossimo incontro.

Un giorno, mentre ero seduto lì di fronte alla sua scrivania a guardarla e ad ascoltarla, squillò il telefono. Rispose. Disse scattante: “Le passo il mio socio”. E, poco dopo: “Pronto? Mi spiace, il mio socio non è in ufficio in questo momento. Chiami più tardi,” e mise giù il ricevitore.

Usualmente, quando squillava il telefono, e squillava rarissimamente, diceva sempre, quasi in automatico: “Le passo il contabile”. E, poco dopo: “Pronto? Mi spiace, il contabile non è in ufficio in questo momento. Chiami più tardi,” e metteva giù il ricevitore.

Capitava anche che dicesse: “La segretaria oggi non c’è. Dica pure a me. Sono la dottoressa Smerdapane.”

Erano queste le persone che menzionava: socio, contabile e segretaria, persone che io non avevo mai incontrato. Insomma, era chiaro: voleva far capire che c’era gente che lavorava in quell’ufficio. Io, comunque, come ti ho appena detto, Rossi, non ho mai visto un cane morto lì dentro, oltre a lei. E, inoltre, più volte mi era venuto in mente, mentre lei rispondeva al telefono, che quelli che la chiamavano conoscevano il gioco. Facevano parte di quella meraviglia. A meno che non avesse addirittura un telefono programmato che si metteva a squillare ogni qual volta lo desiderava lei, cioè quando aveva clienti nell’ufficio. Ma questa, of course, era una mia supposizione.

Una volta dovevo darle una piccola somma. Non avevo con me il blocchetto degli assegni. La pagai in contanti. Disse: “Le faccio fare una ricevuta dal contabile”. Ormai, a via di dirlo, ci aveva fatto l’abitudine a fare nomi inesistenti. Quindi uscì. Chiamò: “Dottor Pirla”. Non ho sentito nessuna voce oltre alla sua. Ritornò da me. Disse: “Il contabile è impegnato. Gliela faccio io la ricevuta” e, dopo averla fatta, me la porse.

Non era una ricevuta vera e propria, col bel nome dell’Agenzia Letteraria Europea Smerdapunto, ma un pezzo di carta polveroso, stropicciato, unto, un insulto alla mia fragile sensibilità estetica. Ovvio, anche le altre ricevute che m’aveva fatto in passato erano malmesse, ma non come questa. Almeno così mi era parso. Mi ero messo a riflettere: con tutti i soldi che le ho sborsato, avrebbe potuto almeno farsi fare un blocchetto per le ricevute e metterci sopra il bel nome dell’Agenzia Smerdapunto. Era tutto così bello in quell’uffico, ma a volte affiorava qualcosa di brutto, molto brutto. Quel pezzo di carta polveroso, stropicciato, unto, era di una volgarità e bruttura unica. Ed è stato, Rossi, proprio quel pezzo di carta polveroso e unto la causa di tante vicende.

Non so come spiegartelo, perché non c’è una ragione plausibile per quello che poi successe, so solo che quel maledetto pezzo di carta è stato fatale, l’inizio d’una repentina metamorfosi. Da un momento all’altro non ero più io, ero diventato un essere che non conoscevo. Quest’essere, questo nuovo essere, però, aveva un nome: si chiamava “rabbia”. Era tutto rabbia, rabbia nascosta, rabbia che voleva manifestarsi, esplodere.

Riprendo i soldi che avevo messo sulla scrivania e che lei non aveva ancora, stranamente, ritirato. Li ho rimessi in tasca. Poi, deciso, mi sono alzato, ho preso sgraziatamente la Smerdapane per il braccio e l’ho quasi trascinata nella camera dove lei andava sempre a chiamare il contabile, il socio, la segretaria, insomma, i suoi fantasmi.

Le chiedo di farmi vedere dov’è il suo dottor Pirla. Non sa cosa rispondermi. Non reagisce. Realizzo che il locale è vuoto. Quello che avevo sempre pensato.

Mi sento affogare da un’altra ondata di rabbia. Avverto che sono alla mercè di qualcosa che è più forte di me. Per controllarmi provo a pensare a quant’è bella, accattivante, scattante, persino fantastica, la Smerdapane. L’idea non funziona. Allora penso alla sua affascinante voce. Neppure questa. Penso a qualcos’altro. Niente. Non funziona più nulla nella mia testa. Non resisto più. Mi tremano le mani. Sono in balia del destino. Mi sento perduto. La rabbia, cieca e crudele, m’invade, mi avvolge, mi domina, si scatena.

Incomincio a picchiarla. Non si difende neppure. È terrorizzata. Quel mio improvviso comportamento la irrigidisce, la congela, le toglie persino la parola. Continuo a picchiarla. Sbatte contro un mobile. Perde l’equilibrio. Cade per terra. Le arriva un calcio in faccia, altri nello stomaco, dappertutto.

La bestia non è ancora soddisfatta. Sento che la Smerdapane non è più la persona della mia infatuazione, sento che non è una donna che sto menando, ma un verme e questo può essere sia femminile sia maschile. Proseguo nella mia furia assassina. Ad un certo punto, lei non reagisce più. Non si muove neppure. Giace inerte sul pavimento. L’ho ammazzata. Bene! Sferro ancora un calcio al suo cadavere e poi esco dalla camera, dall’ufficio, vado via.

L’indomani, senza farmi vedere da mia moglie, preparo la valigia. Aspetto da un momento all’altro che la polizia suoni il campanello. Non lo fa. Neppure il giorno dopo, la settimana dopo, il mese dopo. La Smerdapane non era morta come avevo pensato. Si era ripresa e non aveva neppure denunciato l’accaduto.

La mia avventura con le case editrici e le agenzie letterarie si è chiusa quel giorno, Rossi, il giorno in cui mi sono scoperto un altro. Da allora ho deciso di auto-pubblicarmi diventando così autore-editore-lettore. Mi piace molto leggermi subito dopo essere stato pubblicato. Mi pare di non essere io l’autore. I miei libri non li leggo solo io, li do anche in giro gratuitamente a quelli che vogliono leggerli, come ho fatto con te, Rossi. Tu, però, sei stato l’unico, l’unico a leggermi per intero e a scrivermi, e sei stato anche, come ti ho accennato all’inizio, sei stato anche la mia fortuna, perché, senza di te, amico mio, non avrei mai scritto questo libro. Grazie!

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