Il manifesto dell’antiarte

 

Un pomeriggio, a Melbourne, mentre stavo scrivendo alla lavagna, sono svenuto e finito sul pavimento. I miei studenti mi hanno portato all’ospedale. Qui, dopo un’iniezione e qualche ora di riposo, mi sono ripreso. I medici dissero che era stato un collasso dovuto allo stress. In quei tempi ogni malanno sconosciuto era dovuto allo stress. Iniziarono a farmi prelievi, controlli, esami e, verso sera ho potuto ritornare a casa. Avevo 34 anni ed eravamo verso la metà degli anni Settanta.

La mia dottoressa, la dottoressa Fraser, amica, poetessa e allieva, mi telefonò il giorno dopo dicendomi che dovevo sottopormi a una serie di check-up, e che per il momento si sapeva solo che ero un portatore di talassemia. Le dissi che il termine non mi era familiare. Mi spiegò che con la talassemia maggiore si muore in età giovanile, con la talassemia minore si vive una vita quasi normale. E io quale avevo? Non si sapeva. Non appena avesse avuto i risultati definitivi degli esami, ci saremmo visti.

In quel periodo di prelievi, di controlli, di esami e di paura, mi rivolsi alla mia salute chiedendole di non arrendersi e alla mia forza di volontà di aiutarmi a superare quest’ostacolo e a darmi il tempo di scrivere tre libri (l’idea di scrivere tre libri era vecchia in me). Una volta scritti, avrei accettato l’inaccettabile con più serenità.

Alcuni giorni dopo, mentre mi recavo in clinica, mi fermai a Toorak, uno dei sobborghi chic di Melbourne, entrai in un negozio di specialità europee e chiesi un intero camembert, così com’era esposto in vetrina e una bottiglia di Côte-du-Rhône stappata. Uscì dal negozio mangiando formaggio e bevendo vino direttamente dalla bottiglia. Prima di arrivare all’auto, buttai in una pattumiera quel che rimaneva del camembert e del vino, poi salii, accesi il motore, inserii nel mangianastri una cassetta di Theodorakis al massimo volume e partii come un razzo pensando che stavo per morire.

L’idea che i miei giorni avrebbero potuto accorciarsi drammaticamente, mi dava una sensazione di estraneità, ero continuamente preda di cupe riflessioni, esageravo ogni cosa. Mi sentivo un alieno tra gli umani, mi pareva di non appartenere più a loro, al mondo, a nessuno, neppure a me stesso. I miei simili mi erano diventati estranei e la terra su cui camminavo non mi apparteneva più. Vedevo tutto nero. Durante la notte dormivo pochissimo. Il pensiero della morte mi dominava, mi isolava come si isolano certi animali quando avvertono la presenza dell’inevitabile.

Qualche settimana dopo il mio incidente in classe, mi richiamò la dottoressa Fraser dicendo che aveva ricevuto il referto dei miei esami e che sarebbe venuta a portarmelo.

Quando le aprii la porta, il mio cuore batteva freneticamente. Mi comunicò che la mia talassemia non era quella maggiore. Solo se mi fossi sposato con una donna, anche lei portatrice di talassemia, avremmo dovuto prestare attenzione, perché, su quattro figli, uno sarebbe nato con questa anomalia del sangue. Udita la notizia, presi la dottoressa tra le braccia, la sollevai e mi misi a volteggiare come se stessi ballando un rapidissimo valzer, mentre lei strillava che la mettessi giù. Quando lo feci, i miei occhi erano pieni di lacrime.

Da allora è trascorso molto tempo e sono successe molte cose. Una di queste è che ho realizzato il mio sogno, ho scritto i 3 romanzi che desideravo scrivere. Ma perché era così importante scriverli? Non per vanità. Nemmeno perché avevo qualcosa di sublime da comunicare ai miei simili e tantomeno perché mi ritenevo un portatore di verità eterne. Non parliamo poi di opere originali, opere che avrebbero potuto svelare i segreti occulti dell’arcana vicenda umana. Nulla di tutto questo.

La scrittura, a mio modo di vedere, è una cosa sociale e individuale. Ed è tutto detto. Scrivere è scriversi. È mettersi in gioco e mettere in luce ciò che uno pensa dei suoi simili e della società in cui vive. Questo modo d’intendere la scrittura, però, è in pieno contrasto coi maestri di quest’arte che sostengono che il romanzo dev’essere scritto senza l’interferenza dell’autore. È possibile una cosa del genere? E cosa vorrebbe dire “senza l’interferenza dell’autore?” L’arte è soggettiva o non è arte.

Cos’altro è il romanzo di Flaubert, “Madame Bovary”, se non puro realismo personale? Qual è la tesi di Zola nei suoi romanzi, se non quella d’un naturalismo soggettivo? Qual è la tesi di Verga ne “I Malavoglia”, se non quella d’una poetica soggettiva del verismo? Cos’altro è “la petite madeleine” di Proust, se non la tesi soggettiva della remembrance che diviene ostinatamente ripetuta nei sette volumi della “Recherche?” Il romanzo di Camus, “Lo straniero”, cos’altro è se non una formidabile tesi soggettiva sull’ “assurdo”? Lo stesso vale per il flusso di coscienza nell’ “Ulisse” di Joyce.

In un’opera letteraria, è l’io-soggetto che interpreta l’io-oggetto. Persino quando l’io giudica se stesso avviene tutto al soggettivo. L’io si sdoppia, diventa soggetto e oggetto. Nella frase “Non devi andare in montagna quando il tempo è brutto,” troviamo l’ “io-soggetto” che dice all’ “io-oggetto” cosa deve o non deve fare quando il tempo è brutto. Il mondo dell’uomo è un mondo inteso e costruito al soggettivo.

L’imperativo flaubertiano dell’invisibilità dell’autore è una balla, perché più l’autore è “invisibile”, più in realtà è “visibile”. Quando Flaubert dice Madame Bovary c’est moi, non sta dicendo solo che lui è la protagonista del suo racconto, sta dicendo anche che lui è tutto il racconto e tutti i personaggi del romanzo il cui titolo è “Madame Bovary”. Flaubert è ovunque: nella costruzione della frase, nella punteggiatura, nel concatenamento logico, nel pensiero dei suoi eroi, ovunque c’è lui, non gli sfugge proprio nulla, non una virgola, non una parola, non un pensiero, non un aggettivo è fuori posto, a meno che non sia voluto.

Ora, però, più un racconto è perfetto, più è a tesi; più un racconto è naïf, meno è a tesi. La scrittura flaubertiana è una scrittura anatomica, clinica, asettica, priva di ogni superfluo, creata dallo scrittore onnisciente, onnipresente, onnipotente e, infine, è una scrittura morta: l’imperfetto è vivo, il perfetto è morto e la sua è una scrittura perfetta, perciò morta. In questo caso, quando Flaubert dice Madame Bovary sono io, dice giusto. E dice anche, e forse questo lui non lo sapeva, che è uno scrittore a tesi per eccellenza.

Quando dico che la sua è una scrittura morta, non intendo dire che i suoi romanzi, saggi, racconti, ecc., sono morti. Per nulla. Tutt’altro. I suoi lavori letterari sono dei capolavori. Intendo dire che sono, da un punto di vista analitico, d’una scrittura così impeccabile che non si può né aggiungere né togliere neppure una virgola, sono così perfetti da essere intoccabili.

I romanzi più riusciti sono quelli la cui tesi invisibile è la più visibile; i meno riusciti sono quelli la cui tesi è trasparente sin dalle prime pagine. Gli scrittori veri scrivono racconti a tesi, gli altri scrivono racconti a tesi naïf, ma la “tesi” nella scrittura c’è sempre. Non si può scrivere neppure una sola frase senza scontrarsi con una tesi: quella dell’autore. Nella frase “l’albero è bello”, c’è la tesi di lode alla natura; nella frase “l’uomo è mortale”, c’è la tesi dell’inevitabile destino dell’umanità; nella frase “è un avaro”, c’è la tesi della spilorceria. In tutto ciò che ci circonda c’è un percorso cieco: quello della natura, oppure un percorso illuminato (a tesi): quello dell’uomo.

È proprio in questa “tesi illuminata” che l’artista dà alla sua opera un senso, non quello d’una scrittura dove non esiste l’interferenza dell’autore, ma quello dove l’autore domina da cima a fondo in ogni parola, riga e paragrafo. È lui, non l’autore invisibile, ma l’autore visibilissimo che investe i suoi personaggi d’un meaning sociale e individuale senza il quale sprofonderebbero nell’assurdo e nel nulla.

Cercare di scrivere un’opera impersonale, è cercare di creare l’innaturale, il non senso. Non esiste un’arte per partenogenesi. Solo il ragno riesce a tessere la ragnatela tirando dal suo corpo un filo dopo l’altro. La sua, però, è una ragnatela creata dall’istinto e non dalla volontà. Non è lo stesso per l’artista. La sua opera è intimamente e capillarmente connessa col tessuto sociale e più questo gli è chiaro, più lui è motivato a riprodurlo, a criticarlo, a passarlo al vaglio della ragione e dell’umanità che c’è in lui. La composizione letteraria è la quintessenza della vita e, nonostante ciò, la si vorrebbe tener fuori dalla vita. Che idiozia!

Albert Camus diceva che il mestiere dello scrittore non è come quello del calzolaio. Questi, dopo averla fatta a botte coi fascisti, può ritornare al suo negozio e continuare a riparare scarpe senza che il suo lavoro venga minimamente contaminato dalla baruffa. Non funziona così per lo scrittore. Questi, sostiene il filosofo dell’assurdo, non può scrivere un racconto ignorando lo scontro che ha avuto coi fascisti, perché questa esperienza l’ha segnato, ha influito sul suo modo di sentire, pensare e vivere.

Io non posso scrivere una sola frase senza essere influenzato da quello che ho fatto e provato nella vita. Come potrei? Se mi si toglie il vissuto, divento di nuovo tabula rasa com’ero alla nascita. La mia esperienza è la linfa del mio narrare; il mio narrare è la testimonianza del mio pensare. Non si nasce scrittori, scrittori si diventa, e io sono diventato scrittore grazie alla vita che ho vissuto. È stata questa che mi ha messo la penna in mano e mi ha detto: “Scrivi!”

E scrivo! Non però romanzi d’evasione, non romanzi per hobby, tantomeno romanzi perché non so cosa fare del mio tempo. Non scrivo neppure romanzi sull’unicorno, io. Non parliamo poi di scrivere per fare soldi o per essere famoso. Tutto quindi, ma non art for art’s sake. Scrivo perché, come sugli alberi sbocciano gemme, fiori e frutti e nel seno delle madri figli, così nel mio cervello, per via della vita che ho fatto, sono sbocciati i germogli della mia esperienza, un’esperienza che si è trasformata in creatività.

Nei miei racconti scorre il mio io, il mio sangue, il mio vissuto, la mia esperienza esistenziale, la mia vita di mortale, la mia morale, etica, impegno sociale, il mio altruismo, le mie illusioni, i miei ideali, la mia ambizione, il grado della mia umanità, insomma scorre tutto il mio essere, ma soprattutto scorre il senso che io do alla vita, senza il quale rimarrebbe cieca, assurda e priva di significato. Come Flaubert può dire “Madame Bovary c’est moi”, così io posso dire “I miei scritti sono me”.

Prima di pubblicare il mio primo romanzo, volevo intitolarlo “Francis I”, il secondo “Francis II” e il terzo “Francis III”, ma l’editore non ha voluto. E perché no, poi? Ci sono due tipi di biografia: quella che ricostruisce la vita d’una persona e quella che proviene dallo stesso autore. Quest’ultima è un’autobiografia intellettuale, spirituale, individuale e contemporaneamente sociale. L’artista, e non importa quello che crea, non può sfuggire alla sua vita e al suo io soggetto: lui è ciò che produce!

I miei scritti, dunque. Mi sforzo di cogliere in ognuno di essi qualche briciola della realtà che mi circonda, perché, a mio modo di vedere, è quella che più rispecchia da vicino il presente in cui vivo. Una delle differenze fondamentali che vedo tra un’opera letteraria “realista” e una di “evasione” è che la prima, l’opera realistica, si concentra sulla vita e sulle cose che, bene o male, ci riguardano tutti. La seconda, l’opera di evasione, riguarda prima di tutto l’autore e poi tutti quegli “altri” che, come l’autore, hanno bisogno di un’evasione dalla realtà per sentirsi vivi, non umanamente, ma metafisicamente vivi, cioè morti.

Sto forse insinuando che certe incongruità artistiche non dovrebbero essere ammesse in una società sana e protettiva nei propri confronti? Può darsi. Anche Platone, e devo dire che mi è molto antipatico, la pensava così. La visione del mondo oggi è molto cambiata da quando si scriveva “senza l’interferenza dell’autore”. Non vedo perché, allora, noi esseri vivi e consci di ciò che ci circonda, dovremmo sprecare il nostro tempo inseguendo fantasmi e altre astruserie della mente quando potremmo utilizzare il nostro patrimonio intellettuale in cose più consone a una visione realistica della vita e del Pianeta che ci ospita.

La realtà del mondo prima o poi ci colpirà tutti e, di fronte a questa realtà, si spalancherà l’abisso. Le parole che Dante scrisse sulla porta dell’inferno, avrebbe dovuto scriverle su quella del paradiso: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Con la morte non si entra in nessun luogo, si passa da materia animata a materia inanimata; con la morte, la vita, la lotta, il successo, la sconfitta, l’amore, l’eternità, ogni cosa inizia e finisce in questo mondo. Non c’è altro.

Un buon racconto dovrebbe essere come un buon bisturi. Il compito di quest’ultimo è di eliminare il marcio dal corpo; il compito del primo è di smascherare il marcio sociale. L’arte sta nell’andare fino in fondo, e il racconto e il bisturi sono strumenti che devono andare fino in fondo per essere degni del ruolo che svolgono e rappresentano.

Solo una comprensione scientifica e filosofica del mondo è in grado di farsi un’idea adeguata dei veri valori della vita. L’artista deve abbracciare questa tesi altrimenti non è un artista, è un altro volgare abborracciatore del mondo che lo nutre immeritatamente. Sviluppare una mente scientifica e universale non è solo un esercizio salutare, è anche e soprattutto un dovere sociale. L’arte dovrebbe essere il fior fiore della scienza e della filosofia. Un’arte che ignora la scienza e la filosofia non è arte, è bluff, è sofisticheria, è prostituzione e, in ultimo, bestemmia!

Il ruolo dell’artista, nel caso ne avesse uno, è di combattere a spada tratta il mondo di bugie che abbiamo ereditato e in cui stiamo affogando. Non lo può fare con la fuga, con l’unicorno, con l’ipocrisia, con le commediole che fanno ridere le mogli annoiate a morte dei pappagorgia. Deve farlo con un’arte avveduta e impegnata. Solo in una società politicamente e scientificamente sveglia può esistere il vero senso della giustizia e la vera democrazia.

È inutile che ci illudiamo di vivere nel migliore dei mondi possibili, perché, in realtà, viviamo nel peggiore dei mondi immaginabili e inimmaginabili possibili diviso in campi di concentramento. In ognuno di questi lager c’è un pugno di banditi legalizzati al crimine e alla violenza che abusano e massacrano le vittime che li nutrono e mantengono. Cinismo machiavellico alla massima potenza, il resto è retorica.

Chiunque oggi desideri dare un senso alla propria vita, lo può trovare solo al di fuori di ogni luogo abitato. La società, da un lato all’altro del globo, è corrotta e marcia fino al midollo, ed è così corrotta e marcia che non si rende più conto che sta portando l’intero Pianeta e tutto ciò che geme e vegeta in esso alla rovina.

È chiaro allora che se la mia è un’arte, non è un’arte al servizio d’un tale abominio. Pas du tout! È un’arte al servizio della verità. È un’antiarte a tutti gli effetti. È contro tutta quell’arte fatta su ordinazione, ermetica, astrusa, favoleggiante, di élite, di mala fede, bigotta, venduta, impersonale, in fuga dalla realtà. Fare un’arte dell’antiarte è l’unica ragione dell’arte. L’arte dev’essere distruttrice e costruttrice al medesimo tempo o non è arte, è shit, oppio e disumanità.

In un mondo di cinici, tutto diventa cinismo. L’arte, la così chiamata “arte ufficiale”, è l’arte più violentata e oltraggiata al mondo. Non c’è in essa una sola riga, verso, nota musicale, pennellata, composizione che non si ribelli contro questa abbietta manipolazione. È tutto sotto sopra in questa bolgia di vittime e carnefici in cui ci troviamo, tutti, a tirare le cuoia. L’arte, quella che avrebbe dovuto essere il vero specchio di questa infame realtà, è invece l’oggetto più falso e abusato che si possa concepire.

Gli artisti, i veri artisti, in questo mondo di palloni gonfiati, sono come le gemme di Sagittarius A, rarissimi. Non sono sicuramente quelli invisibili, ma quelli visibilissimi. Questi non si limitano a raccontare il sociale come appare loro, perché sanno che raccontare il sociale per come appare è raccontare il falso. I veri artisti, oltre che essere degli antiartisti, usano anche il bisturi!

 

I racconti che seguono non sono dei saggi, sono dei racconti, o, forse, saggi trasformati in racconti. Non lo so. Deciderà il lettore, se un lettore ci sarà, quel che sono.

 

UN INVITO: Se l’articolo è stato di vostro gradimento, passate parola, condividetelo, criticatelo, dite ciò che pensate. Per crescere e maturare culturalmente (non biologicamente, di questo si occupa la natura), abbiamo bisogno di comprendere, di comunicare, di confrontarci, di dire la nostra, brutta o bella che sia. Fatelo! La vita è qui e ora e poi mai più. Non perdetevi questo confronto con voi stessi e coi vostri simili. Siamo tutti degli esseri umani. Vale a dire, nessuno uomo è più che un uomo. È così che Orazio Guglielmini parla agli amici del Web.

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  1. By Eleanor

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