La mia vita, parte decima

 

Il probo

 

Mi è capitato, e più d’una volta, di rifiutare la così detta “fortuna”, ovvero una certa agiatezza economica. Tre esempi, ma ce ne sarebbero altri. Il primo è stato con Paris vision. Il proprietario, monsieur Georges (non ho mai conosciuto il suo cognome, a meno che non fosse stato questo, lo chiamavano tutti così, monsieur Georges), voleva che facessi carriera nell’azienda. Sarei potuto diventare, con un po’ di buona volontà e le lingue che conoscevo, un ottimo organizzatore per i clienti esteri della Paris Vision e guadagnare dei bei quattrini. Per conto mio guadagnavo già un fracco di soldi tra la paga che prendevo e le mance dei turisti che portavo in giro per Parigi e dai padroni di ristoranti e di locali notturni. Ero passato dall’essere un perpetuo squattrinato e morto di fame, a un signore con un conto in banca! Ho rifiutato l’offerta di monsieur Georges.

Il secondo è stato in Australia e più precisamente alla European School of Languages. I genitori di Rebecca G., un’incantevole e gioviale ragazza (la cui madre, la signora G., per conoscermi, aveva seguito per due anni un mio corso di francese, anche se, il francese, lei, lo conosceva meglio di me!), mi volevano far sposare con la loro unica figlia, offrendomi, se avessi accettato, una villa e una considerevole somma di denaro. Rebecca, che insegnava inglese nella mia scuola, non per bisogno, era innamoratissima di me, ma io, purtroppo, non ero innamorato di lei. Ho rifiutato.

Il terzo esempio. Mi era capitato, e più d’una volta, di fare l’avaro, cosa questa che non faceva parte del mio stile di vita. Questo succedeva soprattutto quando i quattrini degli studenti che s’iscrivevano ai corsi della European School of Languages, entravano con facilità. In quei momenti sentivo il brivido dell’avidità, il richiamo del denaro che reclamava altro denaro. Non volevo più spendere, volevo solo risparmiare, mettere i soldi in banca. Ero arrivato al punto di negarmi persino l’acquisto d’un libro che desideravo. La mia testa non si riempiva più di cultura umanistica e scientifica, ma di come avrei potuto fare più soldi aprendo altre scuole a Melbourne e in altre città australiane. Insomma, non mi riconoscevo più, io non ero più io. Ho venduto la scuola mettendo così fine alla tentazione di diventare un altro seguace del dio dell’egoismo.

Non so come dirlo, ma in quei tempi tutto era facile e naturale. Filava così. Mi veniva spontaneo prendere certe decisioni e rifiutare quello che non mi andava senza ma e senza perché. Il mio imperativo era: “sii onesto con te stesso e con gli altri”, e lo ero nel limite del possibile. Seguivo il mio senso di libertà e sincerità interiore. Se non lo facevo, se non rispettavo questo modo di vivere, questo patto con me stesso, la coscienza era sempre pronta, col suo tribunale intimo e spietato, a giudicarmi severamente.

Avevo preso l’abitudine di piazzarmi davanti allo specchio, e mentre lo facevo guardandomi negli occhi, il mio tribunale interiore passava al vaglio la mia coscienza. Volevo vederla giusta, onesta, pulita, senza macchie. Sapevo, sapevo perfettamente che potevo mentire, imbrogliare, essere disonesto, e avevo gli strumenti per farlo, però potevo farlo a chiunque eccetto che a me stesso! Ma io non volevo essere un truffatore, non volevo vedere questo tipo d’immagine allo specchio. Il mio comportamento sincero e rispettoso mi aiutava a vivere meglio, a non trascorrere notti in bianco. Volevo camminare come la mamma: spalle dritte e testa in alto. Ero diventato schiavo e giudice del mio operato e il mio operato era la mia forza di spirito, la mia linfa, la mia energia individuale e sociale.

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