“Fiori di sierra”, romanzo, parte prima (1)
I
“Mamma, mamma!” grida la bambina correndo in casa, “su per la strada sta venendo un signore con una valigia in mano.”
La madre apre la finestra, sporge la testa e vede l’uomo avanzare. Non le sembra di conoscerlo e si domanda chi mai sia.
Il forestiero, alto, brizzolato, cucito in un vestito scuro, non ha l’aria di appartenere a quel luogo. Cammina con passo deciso e di tanto in tanto si passa la valigia da una mano all’altra. Ha caldo, suda. Anch’egli, mentre si avvicina, cerca nella memoria un ricordo per identificare quella signora. Chi può mai essere? E la casa? È stata costruita senz’altro di recente. Si ferma un attimo, mette giù la valigia, guarda la donna. Gli è del tutto estranea. Si limita ad un saluto di cortesia.
Lei risponde e chiude la finestra.
Lui riprende la valigia e continua per la sua strada.
Dopo un po’, arriva davanti a un casolare. Incredibile: è come l’ha lasciato. Da quando è morta sua madre, nessuno ci ha più abitato. Fermo, col bagaglio in mano, l’osserva, scrolla il capo, posa la valigia, va dove una volta tenevano le bestie e, sotto il solito sasso, trova la chiave. La prende. Apre la porta. Entra.
Un lezzo di cose vecchie gli colpisce le narici. Topi, scarafaggi e altri animaletti fuggono via. Apre le finestre. Stridono, sono sverniciate, sgretolate, decrepite. Un’enorme macchia nera copre la maggior parte del soffitto. La polvere, il vecchiume, lo sfacelo sono ovunque. Il tempo che paralizza, il degrado e l’abbandono regnano da padroni lì dentro.
Vede che lo scudiscio è ancora lì, lì dov’è sempre stato, appeso al muro vicino al camino. Trasale, guarda altrove. La sua fotografia, l’unica che gli avevano fatto, è anch’essa là al suo posto, concava, unta, senza cornice, consunta e mangiucchiata dagli anni.
Non resiste. La prende e la porta in camera da letto dove si trova il solito pezzo di specchio rotto. Lo pulisce col fazzoletto e, tenendo la fotografia a distanza, cerca di intravedere se ci sono segni di rassomiglianza tra Nicolino e Nicolò. A prima vista non vede nessuna traccia di sé in quel bambino nudo e grasso al centro della foto seduto su un cuscino, tutto assorto a guardare qualcosa. La sua fisionomia è cambiata. Continua a guardarlo. Poi, dopo un attento esame, percepisce la somiglianza. È lo stesso sguardo intento e curioso che aveva da piccolo e che ha ancora. Allora tutto gli sembrava uno splendido spettacolo, un grande parco giochi; ora, però, lo spettacolo è diverso.
Esaminando con crescente attenzione la foto, nota che gli angoli della bocca erano leggermente predisposti, quasi pronti a sorridere, allo spettacolo che il mondo esibiva davanti a lui. Che bontà, che spontaneità: Nicolino, il bambino Nicolino, pronto a sorridere al mondo!
Passando dalla foto a se stesso e cercando di unire il bambino all’uomo e viceversa, gli viene da ridere. Lo fa, ma la sua risata si trasforma in una smorfia.
La camera in cui dormiva è dominata dal disordine. Le ragnatele, tra una trave e l’altra del soffitto, investite da un filo d’aria che entra dalle finestre, oscillano pigramente. I muri hanno delle crepe, in un angolo una sedia sgangherata, il letto è sepolto dalla polvere. Si avvicina. Lo preme. Ode il fruscìo delle foglie di granoturco: che musica facevano tutte le volte che si girava!
Continua, col fiato sospeso, a guardare e a toccare oggetti. Si accorge che dovunque metta i piedi lascia orme come se stesse camminando su della sabbia. Resta quieto, pensieroso, immobile; ascolta, guarda, rivede spunti di vita, bagliori sfumati; si sente inondato da impressioni, percorso da brividi, circondato da creature ostili e, in questo ingorgo di immagini e feelings, la sua mente è invasa dai ricordi, ricordi che scoppiano nella sua testa come fuochi d’artificio in un cielo buio.
Fuori passa un’auto, poi un’altra che non prosegue, si ferma. Nicolò si riscuote. Esce. Vede un uomo scendere da una Cinquecento, sente la sua voce forte e acuta:
“Gesù Giuseppe e Maria!”
Lo riconosce. In un attimo si trovano l’uno nelle braccia dell’altro. Si stringono forte. Segue un silenzio, poi:
“Potevi almeno informarci! Così all’improvviso? Dio mio, chi mai avrebbe pensato che ti avremmo rivisto! Non riesco a crederci,” e lacrime cominciano a spuntare da quegli occhi piccoli e penetranti, pieni di emozione e digioia.
Nicolò, che aveva già dimenticato le impressioni scoppiate in lui poco prima, rimane freddo, impenetrabile, stupito da tanta effusione. È da tempo che non condivide più tali fervori, anche se, a volte, malgrado la sua volontà, improvvisi lampi d’affetto agitino il suo cuore.
“Non l’ho fatto perché non sapevo dove e a chi scrivere.”
“Come non sapevi a chi scrivere? A me, naturalmente!” fa l’altro asciugandosi gli occhi.
“E se non abitavi più allo stesso posto?”
“Da noi l’indirizzo si cambia raramente, e poi qui a Calvario il mio nome lo conoscono tutti.”
“Hai ragione, avrei dovuto scriverti.”
“Non fa niente. Dimmi, come sei arrivato?”
“Con la corriera fino a Ferretti, il resto l’ho fatto a piedi.”
“A piedi, certo,” fa Amedeo e gli sembra, per un momento, di ritrovare quel clima d’infanzia e di familiarità che c’era una volta tra loro. Ha un paio d’anni più di lui. È più alto che basso, muscoloso, abbronzato e ha il viso scarno.
“Ti trovo bene, Amedeo,” fa Nicolò.
“Anch’io ti trovo bene, Nicolò”, fa Amedeo. “Anch’io … Ah, non riesco a credere, non … Mi ci vuole un po’ per abituarmi. Adesso, però, devo scappare. Ci sono due proprietari che mi aspettano per delimitare un terreno. È da anni che gli fisso i confini, ma loro continuano a spostarli per poi accusarsi a vicenda per qualche centimetro diterra in più. La gente qui è così. Perché non vieni anche tu?”
“No. Voglio pulire un po’ la casa. Dormirò qui stanotte.”
“Se è solo per qualche notte, mia moglie potrà sistemarti da noi.”
“Non è solo per qualche notte.”
Amedeo gli dà un’occhiata, dice: “Non credo che tu voglia sistemarti di nuovo qui dopo tutti gli anni che hai trascorso all’estero.”
“Invece sì,” conferma Nicolò con un sorriso.
“Ne riparleremo stasera a cena. Non dire di no. Vengo a prenderti verso le sette.”
“Non è necessario che ti scomodi. Vengo a piedi. Preferisco. Conosco la strada. E poi non è lontano.”
“Come vuoi,” fa Amedeo e corre via, s’infila nella Cinquecento e parte rombando sulla strada non asfaltata.
Nicolò segue la Cinquecento con lo sguardo fino a quando non la perde di vista. Rimane pensieroso. Poi entra di nuovo in casa. Continua ad osservare oggetti e a frugare tra i ricordi.
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