“Per amor di Patria” – racconto *
Quella notte Walter fece un sogno. Sognò prima una, poi due, poi tre e poi tutto uno stormo di cornacchie che gli volavano sulla testa mentre stava facendo un picnic in montagna con moglie e figli. Ad un certo punto le cornacchie avevano iniziato ad aggredirli. Tentò di colpirle con un bastone. Ne buttò a terra parecchie. Le cornacchie allora si allontanarono emettendo stridenti gracchi. S’accorse che non tutte se n’erano andate. Una di esse si era posata su un albero secco, senza foglie che prima non c’era. Il paesaggio era cambiato, da tutto verdeggiante a tutto arido e apocalittico. Moglie e figli, spariti anche loro. Ogni cosa intorno a lui si era trasformata. La cornacchia rimasta spiccò il volo e si gettò con violenza su di lui. Walter, quand’era ancora in volo, aveva cercato di vibrarle un colpo di bastone. La mancò. Si era posata sulla sua spalla sinistra conficcandovi gli artigli. Cercò di afferrarla con le mani, strapparla via. Non ci riuscì, gli erano venute meno le forze. La cornacchia iniziò a beccarlo, a strappargli lembi di carne. Walter, non riuscendo più a togliersi di dosso quell’uccellaccio, iniziò a dimenarsi. Si svegliò. Accese la luce. Sua moglie dormiva al suo fianco. La guardò. Sentì il bisogno di andare a vedere i figli. Si alzò senza fare rumore, entrò nella loro camera, vide che anche loro stavano dormendo. Rimase lì a guardarli per qualche istante. Voleva accarezzargli il viso, così tenero, innocente, ma non lo fece per paura di svegliarli. Ritornò a letto e subito dopo la sua testa fu invasa dal brutto sogno che aveva fatto.
Quando si alzò, i figli erano già andati a scuola. Non andava a lavorare quel giorno e neppure sua moglie, Greta. Aveva preparato caffellatte e biscotti per colazione. La consumarono in cucina, in silenzio. Lei poi andò a prepararsi e lui restò lì a tavola, pensieroso. Ad un certo punto si alzò di scatto, lavò piatti e tazze e poi disse alla moglie che andava un momento in cantina. Lei non aveva idea per quale ragione lui dovesse andare proprio allora in cantina, ma non disse nulla, continuò a prepararsi. Quando Walter ritornò, si preparò anche lui e verso le nove uscirono di casa per essere alle dieci alla prefettura di Sanenthìa.
Erano ormai trascorsi due anni da quel giorno quando Walter e Greta erano andati a Milano per incontrare un commerciante tessile. Avevano lasciato la macchina, come facevano sempre quando andavano a Milano, in una viuzza vicino alla stazione di Sanenthìa, di fronte a uno sperduto negozietto di borse e poi si erano avviati verso la stazione.
A Walter non piaceva andare nel capoluogo lombardo in macchina, preferiva andarci in treno, gli piaceva questa combinazione macchina-treno e treno-macchina. Era consuetudine per Walter e Greta, tutte le volte che andavano a Milano, dopo aver incontrato il commerciante, farsi prima una piccola passeggiata in centro e poi andare a pranzare in un ristorante che sceglievano di volta in volta. Dopo andavano a fare shopping. Compravano, il più delle volte, regalini per i loro figli e qualcosa anche per loro. Infine, se era estate, gli piaceva comprarsi un gelato e mangiarselo mentre si avviavano a prendere il metrò che li portava alla stazione Centrale; se era inverno invece andavano a sedersi in un bar, ordinavano due cioccolate calde e se le bevevano chiacchierando spensierati e tranquilli.
Ritornati a Sanenthìa, quel giorno, stanchi ma felici e contenti, presero la macchina e si avviarono verso casa.
Alcuni mesi dopo Walter e Greta si videro recapitare una multa per aver parcheggiato l’auto in prossimità d’intersezione. Veniva da Sanenthìa.
“In prossimità d’intersezione? E dove? E quando?,” si chiesero contemporaneamente i coniugi che, in quel momento, non avevano la minima idea del perché di quella contravvenzione.
“Ma certo,” disse Walter ricordando, “ci hanno multato per aver lasciato la macchina lì dove la lasciamo sempre quando andiamo a Milano.”
“Però quando siamo andati l’ultima volta la macchina è stata parcheggiata lontano dall’intersezione e altri segni di divieto lì, in quella viuzza solitaria e di fronte a quel negozietto di borse, non ce n’erano,” fece Greta.
“Proprio così,” fece lui.
“Non abbiamo neppure trovato il tagliandino rosa della multa che usualmente la polizia lascia sul parabrezza.”
“Sicuramente c’è uno sbaglio”, disse Walter. “Dobbiamo solo andare a Sanenthìa e parlare coi vigili. Che seccatura!”
“Non pensi che sia meglio pagarla?” fece Greta. “Sono centosedici mila lire, sono tanti soldi per una multa, ma pagandola ci eviterebbe di andare a Sanenthìa.”
“Pagarla?” fece Walter. “Ma sei matta? Perché dovremmo pagare una multa senza averla meritata? E poi si sono certamente sbagliati. Lo so che ci costerà più soldi della multa andare e venire da Sanenthìa, ma dobbiamo farlo, se non altro per principio.”
Greta, conoscendo di che pasta era fatto suo marito, capì che non c’era nulla da fare, dovevano assentarsi dal lavoro e andare a Sanenthìa. Così fecero alcuni giorni dopo.
Il vigile Sgalazzo, colui che gli aveva fatto la contravvenzione, una volta sentite le loro rimostranze, li investì piuttosto scortesemente dicendo che non era vero quello che dicevano e che comunque avevano parcheggiato la macchina a qualche metro dall’intersezione.
Walter, sentendo le affermazioni fatte dell’agente di polizia, restò male. Ripeté che non era vero e che loro avevano parcheggiato la macchina in quella piccola via lontano dall’intersezione.
Lo Sgalazzo non era d’accordo.
“Ha fatto qualche foto, può mostrarci che la macchina era parcheggiata vicino all’intersezione?,” chiese Greta.
“Non vado in giro fotografando auto io,” rispose Sgalazzo.
“E come mai non c’era il tagliandino della multa sul parabrezza?,” chiese Walter.
“Non so cosa dirle, io l’avevo messo.”
Sia Walter che Greta, più spiegavano e facevano domande al vigile, più ricordavano i minimi dettagli di quel giorno, quindi anche dove avevano parcheggiato l’auto.
Niente, parole inutili, il vigile era irremovibile. Potevano però, se così volevano, fare ricorso.
“Certo, è proprio quello che faremo,” disse Greta.
“Lei si sbaglia,” disse Walter al vigile, “e noi glielo dimostreremo.” Detto questo, i coniugi se ne andarono.
Mentre erano ancora a Sanenthìa, andarono in un bar-tabaccheria, comprarono carta bollata e busta, si sedettero a un tavolo, ordinarono due caffè e poi scrissero al prefetto esponendo, per filo e per segno, tutte le ragioni del perché ritenevano quella multa ingiusta e che volevano essere scagionati.
Mesi dopo ricevettero una raccomandata dal comune di Sanenthìa: gli avevano raddoppiato la multa, altro che scagionati! Gli si ripeteva la fondatezza, sempre secondo la testimonianza del vigile Sgalazzo, della contravvenzione e quindi si ordinava a Walter Paganesi di pagare la somma richiesta. Certo, avrebbe potuto, se l’avesse voluto, fare di nuovo ricorso.
A questo punto, i coniugi pensarono di consigliarsi con un avvocato. Questi, sentita la storia, disse che se avessero voluto, avrebbe potuto difenderli. In ogni modo, dato che si trattava di una semplice multa, potevano farsi valere da soli e suggerì loro di andare a parlare direttamente col prefetto di Sanenthìa.
Così fecero, presero un appuntamento col prefetto cui avevano scritto e che conosceva la loro storia.
Il prefetto, il giorno dell’appuntamento, non si fece vedere. Avevano aspettato più di due ore per poi sentirsi dire da un usciere che, a causa d’un raffreddore, il signor prefetto non poteva essere presente.
Presero un altro appuntamento e, guarda caso, anche questo secondo appuntamento andò in fumo: il signor prefetto aveva dovuto recarsi a Roma proprio quel giorno.
Fu un pomeriggio, mentre si recavano a Sanenthìa (ormai la coppia Walter-Greta non faceva altro, tra appuntamenti mancati o per altre bagatelle burocratiche, che andare e venire dal comune di Sanenthìa), che Walter ebbe un incidente. Investì un ciclista. Questi si era rotto una gamba, riportato contusioni alla testa e per poco non ci aveva rimesso la pelle. La colpa era del ciclista: per evitare una buca si era improvvisamente spostato al centro della carreggiata e Walter non aveva potuto evitarlo.
Walter iniziò a sentire lo stress di tutta quella vicenda. Non riusciva più a darsi pace: così coinvolto, così sbattuto da un posto all’altro, e perché? E non solo. Si era messo a pensare a quell’incidente e si convinse che se non fosse andato così forte, avrebbe potuto evitare il ciclista e che la colpa, in definitiva, era sua e non di quel poveretto.
Qualche mese dopo l’incidente col ciclista, ricevettero una parcella non indifferente dall’avvocato che li aveva consigliati sul da fare riguardo alla contravvenzione. Walter era furioso. Quello lì se le faceva pagare care le parole!
Il giorno dopo, Walter non era riuscito a concludere un affare a causa del suo comportamento sempre più iroso e incontrollabile. Per una bazzecola aveva mandato al diavolo il rappresentante d’una ditta con cui lavorava da anni. Come conseguenza si chiusero i rapporti lavorativi fra loro. Walter non sapeva come giustificarsi col partner.
Gradualmente ma costantemente Walter aveva incominciato a sentirsi vittima d’un gioco che non conosceva, un gioco truccato e perverso. Stava diventando ogni giorno più nervoso, scontroso e cattivo persino coi figli e con la moglie, le persone che più amava al mondo. Non si riconosceva più. E tutto questo perché? non smetteva di chiedersi.
In quell’ultimo periodo, il malumore non passava più. Stava male, lavorava male, si comportava male. Voleva ripulirsi da quella rogna, da quella faccenda, chiudere e togliersela dalla mente. Ma non poteva. C’era la burocrazia e questa era lenta, lenta, lenta, penosamente lenta, una vera e propria tortura psicologica.
Un pomeriggio, mentre aspettavano (Walter e Greta raramente si lasciavano, gli piaceva fare tutto, cose belle e brutte, insieme) di essere ricevuti dal signor prefetto, si avvicinò a loro un superiore del comando dei vigili. Gli chiese perché volevano tanto avere un colloquio col signor prefetto. Glielo spiegarono. L’ufficiale, sentita la loro storia e la loro determinazione, disse che sarebbe stato meglio, prima di finire in tribunale, che ci fosse stato un confronto tra loro e il vigile Sgalazzo di fronte al prefetto. Furono d’accordo e diede loro un altro appuntamento.
Walter Paganesi amava il suo Paese. Dopo il servizio militare, si era arruolato nell’arma dei carabinieri e ci era rimasto per alcuni anni. Si era arruolato nell’arma dei carabinieri “per amor di Patria” e voleva essere un guardiano giusto e fedele e combattere chiunque offendesse ingiustamente il nome del suo paese. Non ebbe, ahimè, molta fortuna. E tutto ciò perché si era rifiutato di andare a fare lo shopping sia per il suo capitano che per il suo maresciallo. E come avrebbe potuto? Lui era un carabiniere, un guardiano dell’ordine pubblico e non un domestico! In ogni modo, da questo rifiuto in poi le cose per lui non erano più andate per il verso giusto. Per un certo periodo, fino a quando non aveva lasciato la divisa, non passava giorno che i suoi capi non trovassero il modo di umiliarlo, di fargli fare corvè, guardie e altre cose poco carine che si inventavano di volta in volta. Decise, a malincuore, di lasciare l’arma dei carabinieri.
Poco dopo incontrò Greta. S’innamorò, s’innamorarono, si sposarono, fecero il loro viaggio di nozze, poi qualche altro viaggio durante le vacanze estive, e poi decisero che era ora di avere dei figli. Greta gliene diede due: un maschio e una femmina. Una volta che i figli erano un po’ cresciuti, presentatasi l’occasione giusta, si erano messi in affari mettendo su alcuni telai con un’altra coppia, amici di Greta. Per diversi anni, da quando si erano messi per conto proprio, non avevano mai smesso di lavorare, persino sabato domenica e i giorni di festa. In meno di una diecina di anni i telai si erano quadruplicati e anche il locale si era ingrandito: gli affari andavano bene.
Walter era un uomo semplice alla superficie, ma sotto sotto complesso e profondo. Era anche un uomo giusto, non buono, ma giusto. Gli piaceva il suo Paese, pagava le tasse fino all’ultima lira, comprava tutto quello che poteva comprare – auto, macchinari, elettrodomestici, vestiti, cibo, tutto -, da commercianti e industrie nazionali e non era mai andato all’estero: meglio sostenere il proprio paese e “nel mio Paese c’è tutto quello che uno può desiderare,” diceva. Lui era del Nord, però per Walter non esistevano né il Sud né il Nord, esisteva solo il suo Paese e questo comprendeva tutta l’Italia, incluse le isole.
Ora, con l’esperienza che aveva fatto da carabiniere e con tutto quello che gli stava succedendo, incominciava a intuire che forse si era creato un’immagine troppo idealizzata del suo amato Paese e che la realtà era tutt’altra. Odiava rimangiarsi tutto quello che aveva sempre sostenuto di fronte agli altri e soprattutto di fronte a sua moglie. A causa del rifiuto a ritornare sulle sue idee, Walter soffriva in silenzio. Inoltre, in quell’ultimo tempo, le offese e le delusioni ricevute da carabiniere, riaffiorarono e si facevano sempre più sferzanti.
“E perché? E per quale ragione?,” non smetteva di chiedersi. “E adesso? Grottesco!”
Nella testa di Walter, quella multa aveva ormai creato caos e un enorme sconforto. Era confuso. Non sopportava più di avere a che fare con la legge. D’altro canto, data la situazione, avvertiva che non poteva fare diversamente, doveva scontrarsi con essa.
“Maledizione!”
Si sentiva sempre più risucchiato in un abisso, sempre più alla mercé degli eventi che non riusciva a controllare: tre appuntamenti col prefetto mancati, l’incidente con il ciclista che aveva scatenato in lui rimorsi di coscienza, la parcella dell’avvocato, la rottura con la ditta con cui aveva lavorato per anni, il malumore che si era creato in famiglia e poi scocciature e perdite di tempo e di lavoro e irritazioni e frustrazioni a non finire.
“Maledizione, maledizione, maledizione,” si andava ripetendo, “cosa ho mai fatto per meritarmi tutto questo?” No, neanche morto si sarebbe dato per vinto. E poi una vita priva di principi e di dignità, non meritava di essere vissuta.
Era stato il vigile Sgalazzo a inventarsi quella multa e a Walter non interessava sapere se quel giorno allo Sgalazzo era stato imposto da un suo superiore di fare un tot di multe oppure se l’avesse chiamato la padrona o il padrone di quel negozietto di borse di fronte al quale aveva parcheggiato la macchina e gli avesse detto di fargli una contravvenzione per non fargliela mettere più lì. Tutte queste cose e altre ancora a Walter non interessavano, affatto. Voleva solo essere assolto da un crimine che non aveva commesso.
“Voglio vedere,” disse Greta quella mattina mentre erano in macchina e avevano appuntamento alle dieci con la prefettura di Sanenthìa, “voglio proprio vedere se Sgalazzo continua a dire il falso.”
Walter non disse nulla, perché sentiva che se gli fosse uscita di bocca una sola parola, poi non avrebbe più smesso. Si concentrò sulla guida.
Arrivarono alla prefettura di Sanenthìa esattamente quindici minuti prima dell’udienza. C’era altra gente che aspettava. Alle dieci meno cinque arrivò il vigile Sgalazzo. Questi li sbirciò e loro sbirciarono lui. Non si salutarono. Alle dieci e quarantacinque arrivò il prefetto. Questi li ricevette ch’era quasi mezzogiorno. Deposero come se fossero stati in tribunale. Mentre lo facevano, il prefetto non li guardava, dava segni di impazienza, sembrava pensare ad altro. Quando finirono di esporre tutte le loro ragioni, il prefetto fece chiamare il vigile Sgalazzo. Questi ripeté quello che Walter e Greta sapevano già: che l’auto sostava a qualche metro dall’intersezione e che la multa rientrava in pieno nelle regole. Insomma, era più che meritata.
“Figlio di puttana,” pensò Walter ma non lo disse, “come puoi mentire così apertamente!” e il sangue gli montò alla testa.
Il prefetto, quindi, senza neppure degnarsi di guardarli una sola volta in faccia, e nonostante fossero due contro uno a testimoniare, con aria seccata e voce ferma e decisa disse loro che dovevano pagare la multa, perché la parola del vigile Sgalazzo non poteva essere messa in questione.
“Ma se la parola del vigile Sgalazzo non può essere messa in questione,” disse Greta, “perché allora ci avete torturati così a lungo con questa multa e infine perché ci avete accordato questo incontro? Perché non avete detto subito che dovevamo pagare la multa e basta?”
Il prefetto ignorò quello che aveva detto Greta e rivolgendosi a Walter disse sempre più seccato: “Paghi la multa e la faccia finita una volta per tutte con questa storia!”
“Farla finita, io!,” pensò Walter e, lì per lì, qualcosa si ruppe in lui, non tenne più, crollò. Come un automa, freddo e rapidissimo, estrasse dalla tasca la rivoltella che quella mattina era andato a prendere in cantina, spinse sua moglie lontano da lui, e il primo colpo andò a finire in bocca allo Sgalazzo che si abbatté al suolo, i prossimi tre colpi, colpi della malora, andarono a conficcarsi nel corpo del prefetto che, a sua volta, si schiantò sul pavimento, poi, volgendo lo sguardo verso sua moglie, disse:
“Perdonami, tesoro, perdonami, ma ho dovuto farlo. Non c’è futuro né per noi né per i nostri figli finché dobbiamo avere a che fare con questo tipo di istituzioni e con questo tipo di uomini. Ti amo!”
Stava girando la canna della pistola verso se stesso quando una raffica di mitra, partita da un poliziotto sbucato da una porta, gli risparmiò la fatica di premere il grilletto.
* Questi racconti che io ritocco e pubblico su Facebook, appartengono, per la maggior parte, a dei miei scritti pubblicati precedentemente.
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La realtà diviene un racconto inquietante.Chissà perchè,in quei telai ci vedo il filo di ginestra, a Bianco.Forse,tornare là,quando il sole illuminava una vita diversa…
Non sarebbe male, caro Claude, “tornare là, quando il sole illuminava una vita diversa…”, ma il mondo, per il bene e per il male, ci spinge, volente o nolente, ad andare avanti. Verso dove? Io non lo so, ma questa nostra condizione è inquietante.