Fides et ratio ovvero Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, di papa Karol Wojtyla – 6 post, parte prima
Orazio Guglielmini parla a Rossi del libro di papa Giovanni Paolo II, “Fides et ratio”, fede e ragione.
Vedi, Rossi, quando parli di formiche, esistono e le posso vedere; quando parli di alberi, esistono e li posso vedere; quando parli di corpi celesti, esistono e li posso vedere; quando parli di esseri umani, esistono e li posso vedere; ma quando parli questo tipo di linguaggio: “È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È un’esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico, e voglio rivendicare la capacità che l’uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto e analogico”, ebbene, Rossi, quando tu parli questo tipo di linguaggio, io non vedo proprio nulla, non so più di cosa tu stia parlando.
Non è così, però, per l’autore del passo citato, Giovanni Paolo II. Lui parla proprio questo tipo di lingua: “È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica.” E che tipo di filosofia potrebbe essere questa, me lo sai dire, Rossi? Una filosofia dell’irreale, del nulla, dell’aria fritta. Di più. “Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico.” E come fanno a farlo? E quando mai? Gli empiristi dicono che il pensiero senza contenuto è vuoto. La realtà, dunque, per come la conosciamo noi, non può che essere estratta dal mondo concreto in cui viviamo; e, di conseguenza, anche la verità. Altre realtà e verità, non intesa nel senso platonico come l’intende il papa, non ci sono. Non è così però per Giovanni Paolo II.
“In questa prospettiva, continua l’infallibile in “Fides et ratio”, si impone come esigenza di fondo e urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa”, p. 137. Ne sappiamo, fortunatamente, già qualcosa delle scritture e della tradizione della Chiesa!
“La parola di Dio non si indirizza a un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva”, pp. 138-9.
Riprendiamo queste ultime parole, “verità stabile e definitiva.” Alla pagina 31 però scrive: “Una prima regola consiste nel tenere conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta …”. Se la conoscenza è “un cammino che non ha sosta,” allora non può essere “stabile.” Contraddizione o cosa? Buddha prima e Hume in seguito, per quello che riguarda verità stabile e definitiva, sostengono che l’ “io” è in perpetuo cambiamento. Freud, a sua volta, lo sottoscrive, la scienza moderna lo conferma. In tutto l’universo non c’è nulla di stabile e di definitivo, perché sia nelle particelle ultime della materia sia negli esseri umani che negli ammassi stellari c’è dinamismo, cambiamento, decadimento e, infine, la morte! Non è così, però, per l’autore di “Fides et ratio”, papa Giovanni Paolo II.
Ora, Rossi, voglio riportarti per intero il passo diciottesimo di “Fides et ratio”. Scrive papa Wojtyla: “Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio (Israele) ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l’orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel ‘timore di Dio’, del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza e insieme il provvido amore nel governo del mondo… Quando si allontana da queste regole, l’uomo si espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello ‘stolto’. Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell’ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare ‘Dio non esiste’, si rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino”, pp. 31-32.
Intanto tu capisci, Rossi, che, secondo Giovanni Paolo II, tutti i filosofi che hanno negato l’esistenza di Dio sono ‘stolti’, incapaci d’intendere, idioti. Buddha, Eraclito, Parmenide, Leucippo, Democrito, Epicuro, Lucrezio, Roscellino, Pomponazzi, Meslier, Hume; poi ci sono i filosofi dell’Illuminismo, Diderot, d’Alembert, Voltaire, d’Holbach, Helvétius, La Mettrie, Kant e poi ancora Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, Marx, Lenin, Russell, Heidegger, Camus, Gombrowizc, Sartre, John Searle, Daniele Dennett, Michel Onfray, Christopher Hitchens e un milione di altri ancora, tutti, tutti ‘stolti’ secondo papa Giovanni Paolo II, eccetto lui.
Vedere L’Indifferenza divina
Nel prossimo post, seconda parte