Fides et ratio ovvero Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, di papa Karol Wojtyla – parte terza
Voglio proporti ora, Rossi, due brani presi dal libro di Georges Minois, “Storia dell’ateismo”, che parlano, appunto, delle famosissime tesi del Dottore Angelico, san Tommaso, il più grande scopiazzatore di idee altrui del Medioevo, a cui tanto s’ispira il papa re, Giovanni Paolo II. Scrive Minois ne “La Storia dall’ateismo”: “Nel XIII secolo la ricerca delle prove dell’esistenza di Dio assume una diversa direzione, fortemente ispirata dal pensiero di Aristotele: quella del procedimento della regressio ad infinitum, ossia la ricerca della causa prima. San Tommaso d’Aquino ne ha dato l’esempio più sistematico nella Summa theologica, con le cinque vie di accesso a Dio. La prima riguarda la necessità di un motore primo, capace di spiegare l’esistenza del moto. La seconda pone la necessità di una causa prima, poiché è impossibile prolungare all’infinito la catena delle cause e degli effetti. La terza si basa sull’affermazione di un essere necessario, che ha in se stesso il proprio principio di esistenza, e da cui tutti gli altri esseri contingenti traggono l’origine del proprio esistere. La quarta, che evoca quella ontologica di sant’Anselmo, postula l’esistenza di un essere dotato di perfezione assoluta, sintesi di ogni perfezione. La quinta, movendo dalla constatazione della finalità esistente nel mondo, conclude in favore dell’esistenza di una superiore intelligenza trascendente”, p. 83.
In questo secondo brano, Rossi, Guglielmo d’Occam, filosofo, verso la metà del XIV secolo, risponde così alle cinque tesi di san Tommaso: “Si può forse provare con gli strumenti della ragione naturale che Dio è la prima causa efficiente di tutte le cose e che è dotato di una potenza infinita? La verità su Dio è la stessa della teologia e della fisica?”, si chiede Guglielmo nel Quodlibet (Quel che si voglia), e la sua risposta è negativa. In primo luogo è impossibile raggiungere la conoscenza di Dio mediante la scienza, poiché questa può conoscere solo i particolari, l’individuale, e non può dunque pretendere di attingere la verità, la realtà. L’intelletto umano conosce intuitivamente i singoli enti, ne coglie le relazioni, che esprime con segni entro una logica formale, ma non può aspirare a risalire sino ai generi e ai termini universali … Ugualmente, le verità della religione sono indimostrabili. D’un canto, per il fatto che la sola esistenza certa è di ciò che può essere percepito intuitivamente, dall’altro, perché le “prove” cosmologiche fornite da san Tommaso si reggono su una fallace concezione scientifica dell’universo: la necessità di un primo moto e di una causa prima. Tanto più, dunque, non si può provare la realtà degli attributi divini (unicità, immutabilità, onnipotenza, infinità), poiché l’unica conoscenza intuitiva concessa è quella dei loro contrari: pluralità, mutamento, finitezza della potenza e della estensione. Altrettanto indimostrabile è che il mondo sia stato creato, poiché ciò comporta l’eternità del prima e del dopo, il che è assurdo. Riguardo a questi problemi solo la fede può dare certezza; la ragione non è di alcun aiuto…
“Guglielmo d’Occam disintegra le cinque prove di san Tommaso. Certo, egli non approda all’ateismo, ma nega alla fede in Dio tutte le sue basi razionali, col rischio di risolverla in superstizione entro una concezione di fideismo integrale. Il XIV secolo annunzia, infatti, uno nuovo spostamento dell’asse culturale verso l’irrazionale. Scopo della scienza, ormai, non è più la ricerca della verità, ritenuta inconoscibile, ma di ipotesi capaci di spiegare le apparenze”, p. 85.
Al colpo di grazia che Guglielmo d’Occam diede alle cinque tesi sgangherate di san Tommaso, si aggiunge l’ultima e definitiva botta data da Kant nella “Critica della ragion pura”. Nella sezione quarta dell’opera, intitolata Intorno all’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio, Kant passa in rassegna tutte le prove portate fino a lui (e dopo di lui non ce ne sono volute altre) dell’esistenza di Dio. Il risultato è il seguente: “Ora io sostengo, scrive Kant, che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione in relazione alla teologia sono radicalmente infecondi, e, per la loro stessa natura intima, vuoti e vani; e sostengo inoltre che i principi dell’uso naturale non conducono in alcun modo a una teologia; con la conseguenza che, se non si assumono a fondamento e a guida le leggi morali, non è in alcun modo possibile che sorga una teologia della ragione. Tutti i principi sintetici della ragione pura sono di uso immanente, mentre la conoscenza di un essere supremo esige invece un uso trascendente di essi, uso a cui il nostro intelletto non è per nulla predisposto”, p. 470.
Tutti i nostri tentativi di conoscere un essere supremo, secondo Kant, sono vuoti e vani e quindi non c’è possibilità di creare una teologia della ragione. Non è così, però, per Giovanni Paolo II, il papa polacco.
Vedere L’Indifferenza divina
Nel prossimo post, parte quarta