Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (10)
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Seduto sulla vetta più alta dell’Agave, Nicolò contempla il paesaggio circostante. Lontano, davanti a lui, il mare. Solo di lassù si vede quella grande massa d’acqua solcata da lunghe falde chiare e sinuose; dietro di lui le alte cime di Fiermonte che, spoglie di neve, si confondono in una foschia caliginosa; da entrambi i versanti, distese che corrono, il torrentello, qualche tugurio, baracche a forma di case; sopra la sua testa il cielo alto, azzurro, imprendibile. Sotto di lui, tra due rocce, le foglioline d’un cespuglio di avena selvatica vibrano inumidite dalla brina. Erba secca copre, qui e lì, il terreno. Tra gli arbusti solo la ginestra verdeggia, lei sola riesce a trarre cibo in abbondanza da quel suolo arido. Dai suoi steli pendono grappoli di fiori gialli e profumati.
Il cielo inizia ad arrossarsi a levante. Da lì a poco l’Astro della vita, col suo cerchio rosso e sprazzi di luce fiammeggiante, si sarebbe alzato per farsi durante il giorno caldo e insidioso, tanto caldo e insidioso che sarebbe persino capace di prenderti la vita che ti ha dato, se non ti proteggessi dalle sue vampate di calore. Non un rumore, unicamente il canto lontano d’un gallo giunge alle sue orecchie. Poi vede i primi uccelli volare: è l’alba e l’aurora è prossima.
Una mattina, a Nicolello, mentre saliva su quel monte, dopo che sua madre gli aveva impedito di andare a scuola, era venuto in mente che una volta il maestro si era messo a parlare di storia e di uomini buoni e cattivi, di re, pirati, ribelli, schiavi e assassini senza però entrare nel merito della loro vicenda e tanto meno spiegare chi li avesse resi così. Lui, colpito da quei personaggi, avrebbe voluto saperne di più, voleva fare domande, ma non aveva osato e il maestro non aveva detto altro.
A casa, sua madre rispose che solo Dio sapeva, solo Lui faceva e disfaceva tutto e che era unicamente bontà. Ora, pensava Nicolello, com’era possibile per l’Onnipotente creare uomini cattivi quando Egli era unicamente bontà? E poi se sapeva e poteva tutto, perché lasciava che le tempeste distruggessero le case e le messi dei contadini? No, Nicolello non si lasciava convincere da quello che diceva sua madre di Dio e non era neppure soddisfatto del modo in cui il maestro aveva parlato di re pirati e ribelli. Però lui voleva sapere, voleva sapere come si faceva a diventare re pirati e ribelli. Si sentiva assediato da quella domanda a cui non trovava risposta.
Fu molto tempo dopo che, in un vecchio libro, trovò ciò che cercava. Un empio pirata sanguinario, dopo aver ucciso un re buon e pio insieme a tutta la sua famiglia e trucidato metà degli abitanti della città, si era proclamato re. Da allora e per parecchie generazioni i suoi figli e i figli dei suoi figli erano diventati tutti sovrani buoni e pietosi e questo fino a quando non era arrivato un altro sanguinario fuorilegge che si era impadronito della città ammazzando il re buono e pio insieme a tutta la sua famiglia e metà della popolazione e proclamandosi re e divenendo, a sua volta, pio e buono, e questo fino a quando non ne era arrivato un altro …
Nicolò continua a guardare sempre più meravigliato il paesaggio che lo circonda.
I ruderi ostinati di una vecchia capanna resistevano ancora all’attacco del tempo. Il tetto era distrutto, la porta a brandelli e non sembrava un luogo abitato. Lì, nella quiete e nella solitudine, quel rudere raccontava una storia. Apparteneva alla famiglia Cirioli, composta da un padre bevitore, da una madre isterica e dalla loro unica figlia rimasta zitella perché zoppa di natura oltre ad essere inciampata nella mala sorte. Si diceva sul suo conto che fosse amabile, intelligente, che leggesse molti libri e che fosse la migliore dei dintorni nell’arte del ricamo. Viveva nella sua camera, al primo piano. La lasciava unicamente per andare a mangiare e al cesso. Attraverso la finestra la si vedeva lavorare, leggere, guardare fuori per ore. Nonostante l’esistenza spesso burrascosa dei genitori, intorno a lei regnava un alone di serenità.
La sua disgrazia era cominciata, secondo le dicerie delle malelingue, quando un forestiero si era trovato un giorno a passare da casa sua. La madre quella volta era andata in campagna e il padre al mercato di Stìdero per vendere bestiame. Lo straniero picchiò alla porta, la ragazza scese e aprì per vedere chi era. Da qui in poi ognuna delle comari aveva la sua versione della storia, ma tutte erano unanimemente d’accordo sul fatto che la zoppa aveva aperto la porta al forestiero e l’aveva addirittura lasciato entrare in casa, cosa che non avrebbe dovuto fare.
L’indomani in paese non si parlava d’altro. I familiari non davano molto credito a quelle voci, perché detestavano la gente che li circondava. La figlia, da parte sua, era riuscita a sistemare le cose in modo che i suoi non si accorgessero di nulla. Il forestiero, da allora in poi, in un modo o nell’altro, era riuscito sempre a varcare la soglia di quell’abitazione. La cosa era durata molto tempo e l’unica speranza delle malelingue, per provare ciò che andavano dicendo e scornare l’onore di quella famiglia, era vedere la giovane incinta. Questo, a dispetto delle maldicenze, non successe mai.
Nicolello, tutte le volte che sentiva le comari raccontare questa storia intorno al focolare della madre, non poteva fare a meno di aprire bene le orecchie e se poteva, in quei momenti, trovava qualche pretesto per far cadere qualche oggetto sotto le sedie per poi abbassarsi a prenderlo. Mentre era chinato, cercava di sbirciare la vulva alle signore. Allora, con sbalordimento, notava che quelle arpìe aprivano ancora di più le gambe fingendo di non accorgersi che lui le stava guardando. Non portavano mutande e, in quello spettacolo, c’era tutto il teatro della vita.
Un giorno vide i due amanti, la Zoppa e il forestiero. Dapprincipio non aveva fatto caso ad un uomo che camminava agitato su e giù, proprio lì vicino a quella capanna che lui ora dall’alta vetta guardava. Quando, però, scorse la Zoppa sbucare da un viottolo e arrancare verso di lui, capì chi erano. Anche il forestiero si era messo a correre verso di lei non appena l’aveva vista. Si erano gettati l’uno nelle braccia dell’altra e con tutta la forza del desiderio si erano subito avvinghiati, calati per terra e divorati là sul posto. Calmata la prima fame, l’uomo si era alzato, aveva fatto alzare anche lei, poi l’aveva presa in braccio e portata nella capanna.
Solo verso l’imbrunire riapparvero sulla soglia. Lei si teneva stretta all’uomo, lo riempiva di baci. Poi, con forza, si era strappata da lui ed era scappata via attraverso i campi. Correva e correva e correva. I suoi capelli lunghi corvini lisci sciolti svolazzavano da una spalla all’altra, sembravano il campo di grano del signor Peppe quand’era battuto dal vento. E correva, correva.
Egli invece era rimasto là mezzo svestito a guardarla correre. Ogni tanto la Zoppa si girava, si fermava un istante, gli faceva una pioggia di gesti con le mani, gliene mandava un’altra di baci e poi di nuovo volava in mezzo a cespugli e alberi e campi. E di nuovo la sua lunga criniera svolazzava da una spalla all’altra. Chiunque l’avesse vista filare in quel modo, non avrebbe mai pensato che la Zoppa fosse zoppa.
Poco dopo anche lui, prendendo il fucile che aveva riposto nella capanna, se n’era andato via per la campagna con passo tranquillo, fischiettando e col cuore, sicuramente, sazio di amore.
Quell’amplesso, quel modo violento di afferrare la vita, e quella corsa gioiosa in mezzo alla campagna, scossero profondamente Nicolello per molti giorni e, col passare del tempo, divennero una delle tante immagini ricorrenti della sua infanzia.
E correva, correva
con la felicità nel petto
e la chioma al vento;
e correva, correva
leggera come una piuma
e il cuore ch’esultava di gioia;
e correva, correva
tra alberi e cespugli
piena di vita e di amore.
Ah, quelle giornate! Lunghe, solitarie, vissute in pieno contatto con la natura al punto di identificarsi con essa. La sua compagnia, dopo che aveva distrutto la fionda e si era fatto amico delle creature del luogo, erano i grilli che scattavano come molle quando cercava di toccarli; le cicale che rompevano il silenzio del giorno con il loro monotono frinire; i cardellini che cercava di imitare con il fischio; i formicai che non smetteva mai di osservare; i calabroni, invece, li temeva quanto i serpenti.
Ma la mattina presto, durante l’estate, prima che l’Astro della vita infuocasse ogni cosa, c’era la bianca soffice sabbia che cadeva dall’alto dei pendii nelle incanalature e bastava solo un sassolino per ricamare su di essa immagini fantastiche. Che soddisfazione guardarla! E non solo. Rotolarcisi sopra, che divertimento! Sentirsela sul corpo nudo solleticante fresca, come l’acqua cristallina, che delizia! Giacere supino, prendere manate piene di quei granellini piccoli fini scorrevoli, alzarli e poi lasciarli cadere lentamente sul corpo, che solletico! Non conoscere niente del passato, non concepire la responsabilità del presente ed essere ignaro del futuro, che libertà! Correre da una collina all’altra, arrampicarsi sulle montagne più alte, giocare con se stesso e con le bestie, sentirsi vibrare di vita, identificarsi con tutto e con niente, che totalità!
Il Sole stava ora sorgendo come sorgeva allora. Il mare, l’aria e la terra non erano cambiati, non ancora, almeno in questa parte del mondo. Alcuni uomini però erano cambiati a tal punto da stupirsi solo al pensiero di quello che erano stati una volta.
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