Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (2)

II

La stazione di Stìdero era animata da un gruppo di amici e conoscenti che erano andati a salutare Nicolello in partenza. Mentre il treno stava per partire, giovani braccia si alzavano, si stendevano, si mischiavano, si agitavano. Lui ne afferrava due alla volta e le stringeva forte. Tra quelle c’erano anche le braccia di Amedeo che, quando il treno era già avviato, urlò:

“Scrivimi!”

E lui:

“Ho dimenticato tutto quello che ho imparato a scuola. Non so più scrivere.”

Poi, dal finestrino, aveva fatto un ultimo saluto con la mano a quel gruppetto che continuava a gesticolare sulla banchina, aveva sbirciato verso le montagne di Fiermonte, dato un’altra occhiata al monte Agave, e poi si era seduto nello scompartimento con il cuore pesante e il viso rigato di lacrime, nonostante si fosse ripromesso di non piangere.

Sul marciapiede c’era altra gente oltre a quel crocchio chiassoso. Due signori ben vestiti, uno alto, l’altro basso e tarchiato, passeggiavano su e giù a braccetto.

“Un altro straccione è partito,” dice quello tarchiato.

“Magari partissero tutti, questi morti di fame,” aggiunge l’altro.

“Il signor Lazzaro non vuole che i giovani vadano via.”

“E come potrebbe? Questa plebaglia a lui fa comodo. Più ce n’è, meno la paga e più si arricchisce. Per quello che mi riguarda potrebbero partire o crepare tutti. Senza questi pezzenti tra i piedi si respirerebbe meglio.”

Tra coloro che erano andati a salutare Nicolello alla stazione, soltanto il cugino Amedeo era un suo parente prossimo. Della famiglia, quando lasciò Calvario, gli rimaneva unicamente la madre.

Avevano, poco prima che partisse, ammazzato suo fratello mentre faceva il servizio militare. Un ufficiale ubriaco, una domenica pomeriggio, per sfuggire alla noia della caserma, era salito su un carro armato e aveva cominciato a pilotarlo sulla piazza d’armi e per le strade. Ad un certo punto, aveva perso il controllo di quella fortezza mobile ed era andato a cozzare contro il muro d’un deposito di munizioni. Dalle macerie, il fratello era stato tirato fuori morto.

La sorella, a sedici anni, si era innamorata d’un uomo sposato. Costui, una volta, ritornando dalla caccia, aveva trovato la moglie a letto con un venditore ambulante e, senza pensarci due volte, li aveva fatti fuori tutt’e due. Poi era scappato sulle montagne di Fiermonte ed in seguito era diventato un bandito. La ragazza, dominata dalla passione, era fuggita con e ci era rimasta fino a quando non l’avevano catturato. Dopo la cattura, non aveva più voluto ritornare a Calvario. Era sparita.

Nicolello, il più giovane dei tre figli, non era venuto al mondo per sbaglio, ma per un ben preciso piano dei genitori. La pensavano così: se fosse nata una femmina, avrebbero trovato il modo di farla morire (queste cose, a quei tempi, succedevano spesso nella regione di Schidiscita, la terra nativa di Nicolò), perché non avrebbero potuto nutrire un’altra bocca né, un giorno, procurarle la dote; se invece fosse nato un maschio, allora l’avrebbero cresciuto, perché un giorno sarebbe stato lui ad assisterli durante la loro vecchiaia.

Venne al mondo un maschio, ma le cose non andarono come loro le avevano progettate. Aveva due anni quando gli uccisero il padre. Un agguato, uno sparo, una pallottola, una cassa da morto, pianti, grida isteriche e pestate di petto; poi il funerale d’un morto ammazzato, il cimitero, il buco, la bara, la terra, la fine d’un essere umano.

L’assassino, un energumeno, si era dato alla latitanza, una cosa molto alla moda in quella terra. Sua madre si era messa a cercarlo con un coltello da scannatoio nella borsa per vendicare il marito prima che il suo uccisore fosse arrestato.

Non ci riuscì, la polizia gli aveva messo le manette prima. Allora la vedova decise che un giorno, quando l’assassino avesse finito di scontare la pena, sarebbe stato lui, Nicolello, a vendicare il padre.

Non andò neppure così. Nicolello non era diventato un killer per volere della madre, per il vizio della vendetta, altra cosa molto alla moda nella regione di Schidiscita; non era rimasto neanche lì ad aiutarla nella vecchiaia, ma se n’era andato via, in Francia, da una sua lontana zia, che era ancora un ragazzo.

Quella sera, la sera in cui partì per la Francia, la madre non era andata alla stazione. Era contraria alla sua partenza. La donna aveva avuto il diavolo in corpo per tutto quel giorno. Aveva pianto, imprecato contro il figlio e contro il destino. Solo all’ultimo momento e controvoglia, gli aveva preparato la valigia e qualcosa da mangiare durante il viaggio.

Quando era venuta l’ora di andarsene, Nicolello si era presentato a lei, teso, con le braccia puntate verso il basso come due bastoni, lo sguardo diritto davanti a sé, aspettando che gli dicesse qualcosa, che l’abbracciasse almeno quella volta.

Non l’aveva fatto. L’aveva fulminato con un’occhiata e mandato via con un gesto sdegnoso accompagnato da:

“Tu non sei più mio figlio. Per me non esisti più. Puoi anche scomparire come tua sorella o morire.”

Ormai il treno era sparito. Quelli che lo avevano accompagnato alla stazione, si erano salutati e avevano ripreso la via di casa.

I due signori erano rimasti soli a passeggiare su e giù sulla banchina, respirando l’aria salubre del mare, godendosi l’azzurro del cielo che pareva toccasse loro la testa e disquisendo sulla cattiva sorte dei poveri e la buona fortuna dei ricchi.

Tutto ciò succedeva all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora erano trascorsi molti anni, accadute molte cose, pensava Nicolò, mentre si avviava lungo il sentiero che portava all’abitazione del cugino.

 

 

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