Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (4)
IV
Dopo che Amedeo lo lasciò, Nicolò entrò in casa, andò deciso al camino, prese dal muro lo scudiscio e si stese sul letto vestito. Il chiaroscuro lunare filtrava attraverso le fessure della finestra, ed egli si mise a esaminare e a toccare quell’arnese. Forse, se avesse guardato attentamente, malgrado la scarsa luce, vi avrebbe trovato ancora qualche brandello della sua pelle. Quel pomeriggio, quando l’aveva sbirciato, aveva avuto un brivido, ma non aveva voluto toccarlo. Ora, però, ora come poteva non farlo? Sentimenti e ricordi contrastanti si scatenavano in lui, scoppiavano nella sua testa e, come una folgore in piena notte, irradiavano di luce e di immagini il cielo buio. Erano i fantasmi della fanciullezza.
La madre riceve una lettera da Stìdero, l’abitato più grande della zona, nella quale si dice che deve mandare a scuola Nicolello. La donna non vuole, non ne vede il bisogno, l’utilità, in campagna non si vive coi libri. Le autorità comunali le fanno capire che deve.
Cede solo dopo molte insistenze. La scuola si trova distante da casa. Prima, però, deve provvedere al corredo scolastico, che le pone non pochi problemi. È ancora, nonostante siano trascorsi quattro anni, indebitata con le spese funerarie del marito, le sembra di essere seppellita da una montagna di debiti. Non ha scelta. Gli compra, oltre a libri quaderni matite penna e inchiostro, anche un paio di calzoncini corti e un paio di scarpe. Gliele fa fare dal calzolaio chiodate, di pelle spessa e dura, e più grandi tanto da poterle portare per diversi anni. I piedi diNicolello, per la prima volta, conoscono le scarpe.
Va a scuola. Fa le prime aste, aste storte. Impara a farle diritte, impara l’alfabeto, a scrivere il suo nome, a dire qualche parola d’italiano corretto, a contare fino a cento senza fare sbagli.
Inizia a fare i compiti a casa. Capisce che è meglio farli non appena arriva da scuola, a mente calda, quando ricorda ancora bene le spiegazioni del maestro. La madre vorrebbe fargli mangiare qualcosa. Lui rifiuta, preferisce fare prima i compiti. Il cibo scarseggia, capita che si mangi solo una volta al giorno. Non insiste, ma la sera, quando la donna è serena e del cibo ce n’è, gli riempie più volte il piatto di fave, che lui divora insieme ad alcune fette di pane scuro di segale. Quello bianco lo si mangia, se lo si mangia, unicamente nei giorni di festa.
Il fratello e la sorella, ambedue analfabeti e più vecchi di lui, non capiscono la smania del fratellino per lo studio. Spesso lo prendono in giro, gli fanno le boccacce, gli dicono che deve accudire le pecore e le capre piuttosto che andare a scuola. Lui, se può, li ignora. Quando non ne può più, bisticcia e calci e pugni e schiaffi volano da ogni parte.
Continua ad andare a scuola. Passa dalla prima alla seconda. Siede nel primo banco. Ascolta sempre attentamente quello che dice il maestro. S’accapiglia con un compagno che gli dà un pizzicotto. L’insegnante li caccia fuori. Nicolello non se la prende con lui anche se trova la punizione ingiusta.
Un giorno, poco prima della fine delle lezioni, un monellaccio scaglia un missile contro l’insegnante. Lo colpisce in faccia. Questi, che non vede bene, non sa chi gliel’ha tirato. L’ordigno è sbucato proprio da lì, dal banco dov’è seduto Nicolello, e il maestro pensa sia stato lui. Preso dalla stizza, lo carica di botte, spezza la verga che tiene appoggiata al muro sulle palme delle sue mani: dieci colpi ciascuna. Tutti in classe ridono mentre lui si sottopone alla punizione. Il vero colpevole non si fa avanti. Vigliacco!
Dopo un po’ le palme si gonfiano, sembrano due pagnotte. Gli fanno un male da morire. Nicolello però non piange, ha solo le lacrime agli occhi.
A casa, quel giorno, rompe un bicchiere che non riesce a tenere in mano.
La madre, per la prima volta da quando aveva iniziato ad andare a scuola, minaccia di non mandarlo più e crede che il castigo ricevuto sia meritato.
Lui non reagisce, nasconde le lacrime, cerca di resistere al dolore, mette le mani nell’acqua fredda. Non va a scuola per due giorni.
Riprende. È il secondo della classe. Il primo è il figlio d’un signore che sa leggere e scrivere e lavora al municipio di Stìdero. Nicolello scopre che gli piace apprendere. Non perde una lezione. Va a scuola anche quando fa cattivo tempo, quando c’è il temporale, quando non si sente bene. Bisticcia apertamente con la madre quando lo minaccia di non mandarlo più a scuola.
Non esce più a giocare al pallone con gli altri ragazzi, resta a casa a fare gli esercizi. I ragazzi, allora, come i fratelli, lo prendono in giro, lo chiamano secchione. Non se la prende. Quando poi non riesce più a tollerarli, la fa a pugni. Capita che ritorni a casa malconcio, col sangue che gli esce dal naso. Dice che è caduto. Si lava. Soffre in silenzio. Sa che se si lamenta, sua madre gliene darà altre.
Passa alla terza. Ne è contento, felice. Nessuno però, né la madre né i fratelli, condividono la sua euforia. Lo ignorano. Lui ne prende atto, ma non elemosina la loro attenzione. Pago solo di poter andare a scuola.
Continua a fare la sua parte nei lavori di casa. Va a raccogliere la legna, a prendere l’acqua alla fontana, pascola le pecore, le capre, dà da mangiare al porco, pulisce l’ovile e il porcile. Queste sono le condizioni per avere libero il mattino. Non si lamenta, riesce a fare tutto. Quando pascola gli animali, si porta i libri con sé, legge, studia; quando fa le altre faccende, si ripassa mentalmente i compiti.
Adora particolarmente fare moltiplicazioni sottrazioni divisioni. In classe, quando il maestro l’interroga sulla tavola pitagorica è un vero e proprio ping-pong di numeri che volano nell’aria fra l’allievo e il maestro. Nicolello non sbaglia una domanda, poco importa quanto in fretta e quanto a trabocchetto sia stata fatta.
Comincia a calzare male le scarpe. Non lo dice alla madre perché sa che non ha soldi per comprargliene altre e anche per non sentirsi dire per l’ennesima volta che non deve andare più a scuola. Nell’aula però non si può entrare scalzi.
Zoppica. Taglia le scarpe lì dove gli fanno male. La madre se ne accorge, non vuole sentire ragioni, lo riempie di botte. Lui incassa quella violenza fisica con tacito risentimento.
Il maestro capisce perché il ragazzo arranca e gli porta un paio di stivaletti corti, usati, ma di pelle liscia e morbida. Nicolello arrossisce, li accetta, ringrazia.
Fa pochissimi errori nei dettati, ancora meno nei riassunti, descrive le sue giornate mettendo i tempi richiesti; scrive piccole composizioni, prende ottimi voti ed è ben visto dall’insegnante.
Smette di arrabbiarsi quando i compagni lo chiamano secchione. A casa, il fratello e la sorella continuano a prenderlo in giro, particolarmente quando si mette a parlare in italiano. Lui non dà loro retta. Sacrifica ogni piacere, ogni svago per fare i compiti ed essere preparato alle lezioni.
Di nuovo è il secondo della classe. Il primo questa volta è uno storpio, molto intelligente, ma anche molto più vecchio di lui. Il maestro gli regala Cuore di De Amicis.
Nicolello, una volta fatti i compiti e i lavori di casa, prova a leggerlo. Non capisce tutte le parole, non ha un dizionario, sua madre non può comprarglielo. Non importa, legge lo stesso. Vorrebbe leggere fino a tardi la sera, ma non può, non c’è luce. Il lume a petrolio bisogna risparmiarlo per i momenti di necessità, per quando c’è gente.
Trova dove sua madre tiene la pila. La prende, se la porta a letto, l’accende e cerca di leggere sotto le coperte quando gli altri dormono. Lei lo scopre, gliela prende e la nasconde.
Qualche settimana dopo appicca il fuoco alle lenzuola mentre tenta di leggere sotto di esse con un mozzicone di candela.
Questa volta la donna gliele suona ben bene. A causa delle botte, resta a casa alcuni giorni. Quando ritorna a scuola il maestro lo sgrida. Non dice la ragione dell’assenza, abbassa la testa, gli spuntano le lacrime.
Passa gli esami di fine anno a pieni voti, nel seguente l’attende la quarta, a Stìdero. Quel giorno Nicolello ritorna a casa dalla scuola con il cuore che gli scoppia di gioia. Vorrebbe condividere questo felice evento con qualcuno. Dice: “Mamma, ho …” e prima che lui finisca la frase lei lo interrompe sgridandolo perché non c’é acqua in casa. Così, né i fratelli, né la madre, che sanno degli esami, gli chiedono se è stato promosso. Fingono di non notare i suoi sentimenti. Lui li osserva per qualche istante. È ormai abituato a passare dalla gioia alla tristezza, al dolore. Non si lamenta, non dice niente. In silenzio, con la stizza repressa, afferra un paio di carrube da un cesto, ne azzanna una, prende l’anfora di coccio, il secchio e va a prendere l’acqua alla fontana.
L’anno scolastico inizia di nuovo, il suo posto nella classe rimane vuoto. La madre, autoritaria e imperiosa, si fa avanti e sentenzia:
“Con la scuola hai chiuso. Adesso devi lavorare, guadagnare soldi. Io sono andata a scuola solo qualche mese e ho imparato a scrivere lettere a quella buonanima di tuo padre quand’era in guerra. Tu sei andato a scuola per tre anni. Sono troppi. Non voglio professori in casa. È ora che inizi a lavorare.”
“Mammarella mia,” implora Nicolello buttandosi ai suoi piedi, “lasciami andare a scuola. Oh mammarella mia… Oh ti supplico, ti supplico, ti supplico!”
“Dimenticala!” replica lei dandogli un calcio per toglierselo di torno.
“Ti supplico…”
“E vuoi toglierti dai piedi?”
Nicolello non va a scuola. Non gli è permesso. Non può combattere contro il volere della madre.
Un giorno scappa di casa senza scarpe e senza cartella e va a Stìdero in cerca della scuola. La trova quando le lezioni stanno per finire. Non ha il coraggio di entrare. Si ferma dietro la porta col viso rigato di lacrime trattenendo i singhiozzi. Sente il professore parlare. Ascolta. Quella voce gli è nuova, accattivante. Avrebbe dovuto guidarlo, insegnargli nuove cose. Ode il suono della campanella, il fracasso dei banchi, il chiasso degli scolari e il loro precipitarsi verso l’uscita. Fa appena in tempo a nascondersi. Vede due ragazzi che l’anno precedente erano nella sua classe. L’ultimo a uscire è il professore. Mai visto prima. È di statura bassa, di mezza età, ha i baffi, un viso roseo e porta una grande cartella. Non trova l’animo di presentarsi a lui. E poi, a che scopo? Resta lì dov’è, inosservato. L’altro gli passa vicino, non lo scorge, si allontana. Tutto diviene silenzioso, un deserto. Nicolello esce dal nascondiglio. Inciampa. Non cade. Singhiozza.
Vuole vedere l’aula. La porta è aperta. Entra, vede la grande carta geografica appesa al muro, delle parole scritte sulla lavagna. Fissa la cattedra, le pareti, ogni cosa. Lo prende la tristezza, la voglia di piangere, di gridare. Sente salire in sé un sentimento distruttivo, vorrebbe frantumare ogni cosa lì dentro. Dà un calcio a un banco. Non ce la fa più. Scoppia a piangere, il suo è un pianto inconsolabile.
Esce dall’aula a fatica, si mette in strada, non va verso casa. Meccanicamente le gambe accelerano il passo, trotta, corre. Corre a più non posso senza sapere dove va. Attraversa vie, strade, vicoli. Finisce sulla statale diritta solitaria lunga, che non termina mai. Vede una svolta a destra. La prende, corre ancora, attraversa un passaggio a livello, sbuca in un giardino pubblico, poi sulla spiaggia. Incantato, si ferma. Guarda il mare. È la prima volta che lo vede da vicino. L’immenso spazio che si apre su quelle acque lisce blu ondeggianti lo ammalia e nello stesso tempo lo intimorisce. È stanco morto, non si regge più in piedi. Si butta per terra. La sabbia polverosa gli riempie la bocca e il naso. Il sapore è sgradevole. Sputa. Si mette a gemere. Nessuno lo sente, nessuno lo vede, unici testimoni il letto di sabbia, il mare, la spiaggia e il cielo.
Non ritorna a casa quel giorno e neanche il seguente. Passa due notti in quel giardino pubblico vicino alla spiaggia, nascosto in una siepe. La seconda notte, mentre guarda intimorito la volta celeste carica di stelle, rimane scosso, sente un nodo alla gola. S’irrigidisce, si raccoglie quanto più può in posizione fetale. Ha paura, trema, spalanca gli occhi, intuisce, capisce, definitivamente s’illumina, sente che sta per essere privato brutalmente dall’istruzione, da quell’educazione che avrebbe dovuto aiutarlo a crescere, a capire e, lì per lì, prorompe in un pianto lungo e disperato. Esausto, abbattuto, infelice, con il cuore che gli scoppia di dolore, si addormenta singhiozzando, mentre il vento fischia sul suo corpo e sul cespuglio.
Quando al terzo giorno, verso sera e controvoglia, ritorna a Calvario, sfinito e morto di fame, scopre che tutto il villaggio è sottopra. I fratelli sono in giro a cercarlo. Sua madre, pallida d’ira, quando l’avvista, prende lo scudiscio, quello che Nicolò ora tiene in mano e, calma, gli va incontro. Egli conosce molto bene quel suo modo difare. Altre volte l’ha visto e ne ha fatto esperienza. Non la teme, particolarmente adesso, adesso che si è confrontato con la paura per due notti tutto solo in quel cespuglio. Più niente può spaventarlo, tanto meno l’ira della madre.
Quando questa capisce che la preda non può più sfuggirle, con uno strillo selvaggio si lancia su di lui con furore. Colpi di scudiscio fischiano nell’aria e piombano ovunque e con violenza su quel corpo che non scappa, non urla, non piange. Mentre i colpi gli piovono addosso con mostruosa ferocia, Nicolello osa guardare in faccia l’ira della madre con freddezza e con amore.
Dopo un po’ le gambe gli si piegano e stramazza per terra. Ciò non placa colei che l’ha messo al mondo. Divorata dalla rabbia e con un cuore che non sente pietà, continua a vibrare percosse su quel mucchietto di carne quasi inerte che giace al suolo.
Alcuni contadini che stanno lavorando nei campi, sentendo le grida, corrono, glielo tolgono dalle mani, cercano di calmarla.
La donna inviperita urla, impreca, ha il diavolo in corpo, dice che vuole finirlo a legnate. Entra in casa, prende i suoi libri, quaderni, matite, penne e cartella li porta in cucina e li butta sul fuoco. Grida:
“L’avevamo messo al mondo per aiutarci durante la vecchiaia, e adesso questo disgraziato vuole fare tuttodi testa sua. Gliel’ho detto che con la scuola ha chiuso. Deve lavorare, deve cambiare e se non cambia, io gli ho dato la vita e io gliela toglierò!”
Quando Nicolello si rimette dalle botte, cambia, e cambia a tal punto che è difficile riconoscerlo. Odia i libri e quelli che vanno a scuola. Ovunque vede uno scolaro, prima l’attacca a fiondate e in seguito gli si lancia contro sibilando parolacce in dialetto e dandogli pugni e bastonate.
Per mesi sostiene un’implacabile lotta coi ragazzi locali. Se la prende con chiunque parli in italiano. Ebbro disolitudine e di rabbia, passa il tempo arrampicandosi sugli alberi come le scimmie, vola come un Tarzan da un ramo all’altro della quercia che si trova di fronte alla casa, corre come il vento per i campi, da una collina all’altra, arriva barcollando in cima all’Agave, il monte più alto della zona, si butta a terra affondando le dita delle mani e dei piedi nel suolo e, spesso, con il viso rigato di lacrime, resta così in silenzio, gli occhi chiusi, gustando l’affettuoso solletico del vento sulla pelle e ascoltando il leggero brusìo che lo raggiunge. Poi si gira, si mette supino, tira su una gamba, mette una mano davanti agli occhi per evitare la sferza del sole e poter guardare meglio la volta celeste.
Ignaro e perduto in un mondo duro e indifferente, osserva con meraviglia e sbigottimento l’infinito che si dischiude sopra di lui. Questa vista lo calma, lo rende dolce, pensieroso e, infine, gli strappa un sorriso dal viso rigato di lacrime: Nicolello sorride al cielo.
Raramente si avvicina a viandanti cacciatori pastori gente. È diventato un selvaggio, li osserva da lontano come se fossero bestie pericolose, a cui è meglio non accostarsi.
Per giorni non apre bocca eccetto che con gli animali che pascola. Detesta i fratelli; odia sua madre ma non sempre. I sentimenti che nutre per lei, nonostante tutto, sono penosi, contrastanti. A volte l’ama, altre la disprezza. Sente, però, che tra lui, i fratelli e la madre non esiste comunicazione. Si apostrofano con un linguaggio che è più vicino a quello dei bruti che a quello degli esseri umani.
Nicolello ha sviluppato un gusto sadico nel distruggere i nidi di uccelli, di formiche, di insetti d’ogni genere; ad ammazzare lucertole, scuoiare rane vive; si tiene alla larga dai serpenti. Di questi ha paura. Quei bastoni neri che strisciano per terra lo impressionano, lo terrorizzano. La sua arma micidiale è la fionda. Non sbaglia un tiro. È capace di fulminare un fringuello a quindici metri di distanza. Eccetto per i serpenti, è diventato il terrore degli altri animali. Sembra che lo conoscano, che avvertano il pericolo, perché, non appena lo avvistano, volano o corrono via a rotta di collo.
Solo con Peppe, il contadino, gli capita di scambiare qualche parola, qualche gesto amico. Peppe ha un modo di fare calmo, sereno, riposante. Non grida quando parla come fanno quasi tutti quelli che vivono in quel luogo, e questo gli piace. Sì, il signor Peppe gli piace. E anche se raramente si avvicina a lui, spesso lo spia da lontano mentre lavora nei campi.
Così, Nicolello, pian piano, riesce a dimenticare tutto quello che aveva imparato a scuola e a sentirsi leggero leggero, come le piante, come gli animali, come l’aria che respira.
Un giorno torna ad abitare a Calvario un emigrato. Ha una bambina carina, dai capelli biondi, come la madre che è del nord. Dalla sua bocca esce una vocina dolce delicata carezzevole. Non conosce il dialetto locale, parla soltanto l’italiano.
Nicolello dapprincipio la tiene d’occhio, la detesta, particolarmente quando la sente parlare italiano, vorrebbe picchiarla, sentirla piangere come fanno quegli uccellini, che lui ferisce con la fionda, prima di morire.
A poco a poco, però, la bambina, con la sua vocina delicata e dolce, lo trasforma, lo conquista. Si siede difianco alla strada per vederla passare insieme ai genitori. A volte finge di fare la stessa strada che sta facendo lei per udirla parlare, poterla guardare. Quando pensa a lei, si sente un altro e tutta la sua crudeltà di selvaggio si tramuta in teneri sentimenti. È lei, la biondina venuta dal nord, che lo riavvicina di nuovo alla lettura.
Una volta, alla fontana, dove va a prendere l’acqua, trova un vecchio giornale dimenticato lì da qualcuno. Lo prende, lo piega, se lo mette in tasca e quando può lo legge a voce alta. Si dà pugni in testa quando intuisce che non pronuncia bene certe parole. Le ripete, insiste fino a quando non gli vengono bene.
Inizia a parlare la lingua nazionale con le pecore, le capre, il cane, il porco, con tutta la fauna locale, con Peppe il contadino per vedere se lo capisce.
Nicolello, via via, legge tutto quello che trova: giornali, fumetti, libri. Vuole imparare a parlare italiano, perché vuole, prima o poi, parlare con lei, con la biondina, la bambina venuta dal nord. Questa però, non saprà mai nientedi Nicolello e tanto meno di tutto quello che lei ha scatenato in lui.
Più tardi le cose cambiano ancora. Comincia a lavorare. Il suo primo impiego lo trova da un pastore: gli guarda le capre. Poi va a fare il garzone portando da bere agli operai che costruiscono una strada, in seguito va a lavorare dal signor Lazzaro e poi nei cantieri edili, iniziando a portare qualche lira a casa e a soddisfare il volere della madre.
“Già, è andata proprio così!” dice Nicolò come se stesse parlando a qualcuno e, lasciandosi scivolare dalla mano lo scudiscio, chiude gli occhi e cerca di dormire.