Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (6)

VI

“Why, why, why, tell me why!” shouts Judy. “You’ve done your bit, you’ve done more than your bit, you’ve done a big bit. Why should you now, just now at this stage of your life, go crazy? I beg you, I beg you on my knees, forget all about it, forget this evil, black dream of yours and come to your senses, to reason, to reality, to reality as it is now and here and not as it is over there, beyond the sea. You’ve changed since then and enormously. I love you, I can’t let you go just like that. Yours is foolishness, nothing else, only sheer folishness,” 1 e inizia a scuoterlo.

Nicolò siede lì sul sofà con la mente altrove. La donna si sforza di fargli cambiare quella sua idea, quella maledizione che non ha smesso di perseguitarlo. Nonostante gli spintoni che gli dà, lui sembra non sentirli tanto è assorto nei suoi pensieri. Judy grida più forte: “Do you hear me?” 2

Si sveglia madido di sudore, sbraita: “Shit! 3 Questa arpìa viene a rompermi le scatole anche nel sonno.”

Non riesce più a chiudere occhio. Rimane a letto. Nessun rumore, silenzio profondo. Inizia a fantasticare. Scorribande di immagini di vita  recente  sfilano  davanti  ai  suoi  occhi.  Le  esamina, le sviluppa

come se fossero delle negative. In un primo tempo ci prova gusto, poi si stanca, si stufa, si irrita, vorrebbe mandare tutto al diavolo, dormire, ma non ci riesce.

Una luce incerta inizia a diffondersi nella stanza. Sente il canto del gallo, sente il profumo di fiori selvatici, odore di prati, gli pare di vedere animali che corrono. È l’alba!

Allora, pian piano la mente spazza via tutta quella roba che gli formicola nella testa e ricordi lontani, ricordi d’infanzia, ricordi col sapore della fanciullezza, annunciano il loro arrivo. Ed ecco che, come illuminazioni in un cielo buio, essi iniziano ad abbozzare figure, a ricamare immagini, a dischiudere grappoli di vita.

Ricorda che era così bravo con la fionda che gli avevano dato il soprannome di Davide. Ricorda che, una mattina d’inverno, con una fiondata aveva ucciso un passerotto. Quando era andato a raccoglierlo il cuore dell’uccellino palpitava ancora. Era giovane, volava da poco, certe parti del corpo erano implumi. Queste avevano attirato la sua attenzione, si era messo ad osservarle, a lisciare le sue poche morbide penne. Lo sentiva tremare nelle mani. Si accorse che gli occhietti del passerotto lo stavano scrutando terrorizzati, gli stavano chiedendo qualcosa che lui non capiva. Continuava ad accarezzarlo. Cercò la ferita che gli aveva inflitto: un macello! Se lo strinse dolcemente sul petto, si mise a guardarlo o, piuttosto, si guardavano. Gli sembrò di capire quello che l’uccellino gli stava chiedendo:

“Perché, perché mi hai ferito? Che te ne fai di me adesso? Mi mangi? Mi dai al gatto? Mi lasci marcire sul terreno?”

Gli parve ad un certo punto di vedere quel beccuccio aprirsi, stridere:

“Non ho anch’io il diritto di vivere? Per quale ragione mi hai ferito a morte, assassino?”

In quel momento il cuore del passerotto cede. Nicolello rimane lì, di stucco, senza parola, straziato. Si sente colpevole, gli tremano le mani, trema tutto, ha paura di guardarsi attorno, avverte che tutto quello che lo circonda – alberi pietre monti animali – lo sta accusando, lo chiamano “Assassino!” Sente di esserlo. Infatti, perché ucciderlo? Non trova risposta. Si sente un killer, una merda. Non ce la fa più. S’infuria, si strappa i capelli, si morde le labbra, vorrebbe ridare vita al passerotto, ma non può; vorrebbe prendersela con qualcuno, ma con chi altro, se non con se stesso?

La rabbia continua ad assalirlo, invaderlo. Scaraventa con stizza il passerotto contro il tronco d’un mandorlo, ne sente l’urto, il tonfo leggero per terra. Corre a raccoglierlo una volta ancora. Non sa più cosa fare, riprende ad accarezzarlo. Vorrebbe, oh come vorrebbe, riportarlo in vita! Non può. Non può. Non può! È inconsolabile.

Con il cuore colmo d’un rimorso che non sa spiegarsi, scava una fossa e seppellisce l’uccellino promettendogli tacitamente di non uccidere più passerotti né altri animali e là, dinanzi alla piccola tomba appena costruita, fa a pezzi l’arma che l’ha ucciso: la fionda.

I ricordi si affollano nella memoria.

Baffone era mingherlino quanto ad aspetto fisico, ma un grand’uomo per il suo coraggio, questo diceva di lui la gente di Calvario.

Un giorno, una raffica di vento lo sollevò da terra e se lo portò in aria per molti metri. Andò a sbattere contro una quercia e aggrappandosi forte a un ramo, attorcigliandosi ad esso come un serpente, rimase lì a subire tutte le furie della tempesta.

Dopo questa esperienza, Baffone aveva una paura tremenda del vento. Quando lo sentiva soffiare e vedeva le cime degli alberi piegarsi, lo prendeva il batticuore. Iniziava a riempirsi le tasche di sassi, e se queste non erano sufficienti, riempiva anche un sacco stretto e lungo che si era fatto cucire a mo’ di cintura e che portava sempre con sé. Solo quando era così carico, si sentiva più sicuro.

Non era di Calvario. Aveva un oliveto lì vicino e tutti gli anni, durante la stagione delle olive, veniva su per raccoglierle.

Una volta la pioggia e il vento si scatenarono per tutta la notte. La mattina dopo, una vedova di Calvario, la Spellata, vedendo che il tempo era ancora minaccioso, che tirava vento, pensò che quel giorno Baffone non si sarebbe mosso dal focolare e che lei avrebbe potuto portargli via un paniere di olive.

Non è andata così. Quel giorno Baffone non rimase a casa. La gente sapeva che lui aveva paura del vento e perciò era sicuro che, se non fosse uscito, qualcuno gli avrebbe rubato le olive. Per di più, il cattivo tempo ne aveva fatte cadere per terra in abbondanza ed era facile raccoglierle.

Prima di uscire, si era riempito di pietre le tasche e il sacco stretto e lungo che si era legato intorno alla vita, poi si era avviato.

Non appena mette piede nella sua proprietà, avvista la ladra. Si ferma un momento, la guarda raccogliere le olive in fretta e  furia e metterle nel paniere. La riconosce. Pensa al da farsi.

Lei, presa da quello che sta facendo, non si accorge di Baffone. Questi, vedendo che il vento non è più tanto minaccioso, si sbarazza parzialmente del suo carico e così più leggero si avvicina a lei silenziosamente.

Quando la Spellata se lo vede lì davanti, con quel suo bastone nodoso in mano, per poco non sviene. Lascia il paniere lì dov’è e scappa.

L’uomo, dopo una breve corsa, l’acchiappa. Prova a svincolarsi dalla sua stretta. Non ci riesce. Baffone ha mani come pinze. La serrano. Riesce a rifilarle il primo schiaffo. Lei lo sbircia con odio, cerca di liberarsi. Niente da fare. Sa che è, anche se piccolo e scheletrico, un picchiatore. Non può aspettarsi pietà da lui. Riunisce in una sola volta tutte le sue energie e, con uno strattone, si svincola, gli dà una spinta che lo manda a gambe all’aria, poi si mette a correre per la vita.

Baffone si alza e, in un lampo, si sbarazza degli altri sassi che lo ingombrano e appesantiscono e, scattante, pieno d’ira e tutto fuoco, la insegue.

Corrono per i campi. Le è presto alle calcagna. La Spellata se lo sente dietro le spalle, ode il suo respiro, inciampa, cade, il terreno è in discesa, rotola, si ferma contro un gran sasso. Si rialza in fretta. Lui le è già addosso, la riacchiappa, cerca d’immobilizzarla. Lei si batte. Si azzuffano. La donna, nonostante la caduta e le prime botte ricevute, si difende come un’indiavolata, ma i calci e gli schiaffi che lei dà, vanno a vuoto; quelli di lui a segno.

Dopo un po’ è sfinita, cade di nuovo per terra, si rialza, cerca di non cadere, si protegge il viso dai colpi, si sente morire, mentre lui continua a picchiarla.

Quando Baffone intuisce che la Spellata è in suo potere – sa che è sola e povera -, si accinge a spingerla e a trascinarla verso il tronco d’un albero di ulivo. Qui le strappa di dosso i cenci che porta e fattane una specie di corda, la lega all’albero. La Spellata è finalmente immobilizzata e alla sua mercé. Nota che non porta le mutande, cosa, d’altronde, normale per le donne di quel luogo.

Vuole punirla. Dev’essere una punizione esemplare. Con gusto sadico, prende dalla tasca una scatola di zolfanelli e accendendone uno alla volta, le brucia, senza neppure accorgersi delle grida strazianti dell’infelice, tutti i peli del pube. La Spellata sviene. A questo punto Baffone la slega. Lei cade a terra ai piedi dell’albero. L’eroe, soddisfatto della sua impresa, la lascia lì e se ne va.

Più tardi, la donna, quando rinviene, si alza con fatica e, più morta che viva, ritorna a casa. Rimane a letto per settimane senza riprendersi. Una vicina, quando può, le porta qualcosa da mangiare, l’assiste.

La Spellata non si riprende più. La vergogna, il dolore, la miseria sono più forti di quanto la sua resistenza fisica e morale possano sopportare. Si ammala seriamente, pena, muore.

Nessuno a Calvario, e tutti sapevano, dice una sola parola contro l’assassino. E tutto questo per un solo paniere di olive!

Nicolò rammenta anche l’esperienza che aveva fatto la prima volta che era andato a lavorare dal signor Lazzaro.

La prima settimana di lavoro l’aveva superata e questo era già un buon segno secondo alcuni della fornace, perché la maggior parte di quelli della sua età  – aveva nove anni –  crollavano dopo un paio di giorni. Nicolello era crollato sì, ma al secondo giorno della seconda settimana.

Verso le due del pomeriggio, sotto un sole cocente, col corpo rotto dalla fatica, aveva iniziato a trascinare i piedi; verso le tre e mezzo, e per la prima volta da quando aveva cominciato quel lavoro, aveva barcollato, era finito per terra. Si era rialzato in fretta, aveva rimesso nel secchio le pietre cascate e aveva ripreso a trascinare il suo peso verso la bocca della fornace.

Ancora mezz’ora, un’ora, ma di più come poteva? Il sole era sempre alto e si doveva lavorare fino al tramonto. Solo che non voleva, assolutamente non voleva che si dicesse di lui che “dal signor Lazzaro non ce l’aveva fatta!” Voleva almeno finire quel giorno di lavoro, il prossimo non ci sarebbe andato, si sarebbe inventato qualcosa, avrebbe detto di avere avuto degli impedimenti.

Nonostante la sua volontà, non ce la fece lo stesso. Crollò pesantemente, si schiantò al suolo. Il secchio che portava sulla spalla destra era oscillato per primo, poi gli erano tremate le gambe e, un secondo dopo, era caduto. Era andato a sbattere con la testa contro due pietre a forma di cuneo. Il sangue gli aveva riempito la bocca. Aveva un gusto acre, cattivo. Poi qualcuno l’aveva portato via da lì, gli aveva lavato il viso, medicata la ferita, fatto riposare fino a quando non si era ripreso.

Non fu tanto il male fisico che continuò a tormentare Nicolello dopo quella caduta, quanto la vergogna di non avercela fatta dal signor Lazzaro.

Ricorda ancora.

Una sera d’inverno, mentre sua madre era andata a fare una commissione, l’aveva lasciato da un signore che viveva da solo e che durante la guerra era stato preso prigioniero dai nazisti e portato in un campo di concentramento, pare in quello di Dachau. L’uomo era riuscito a scappare e dopo tante disavventure era ritornato a casa.

Dopo quella esperienza nei lager nazisti, si diceva, non lo si riconosceva più. Prima di Dachau gli piaceva bere, andare a caccia, giocare a carte, fare qualche scappatella, poi era diventato un altro. Usciva raramente e dopo la morte di sua moglie, si era quasi chiuso in casa. Viveva come un eremita.

Nicolello non l’aveva mai visto prima.

Quella sera, quando la madre aveva bussato alla sua porta chiedendogli se avesse potuto tenerle il figlio per un’oretta, lui l’aveva prima guardata a lungo, poi aveva preso Nicolello per mano, l’aveva fatto entrare e, chiusa la porta, l’aveva portato vicino al focolare. Aveva preso una sedia e gli aveva detto: “Siediti. Riscaldati. Fa freddo.”

Trascorsero molto tempo, almeno così era parso a Nicolello, in silenzio, un silenzio tombale. Poi, poco prima che ritornasse sua madre, l’uomo disse:

“Lo sai che tu sei più ricco di me?”

Nicolello non aveva trovato quella domanda fuori posto. Per nulla. Sapeva che l’uomo non era povero, che era un benestante. Rispose dandogli anche lui del tu:

“Non è vero, sei tu il più ricco”.

“Ti sbagli.”

“Io non ho niente e ho sempre tanta fame.”

“Non intendo ricchezza materiale,” rispose l’uomo, “intendo ricchezza in età, in giovinezza. Tu sei un bambino, io, nei tuoi confronti, un vecchio. Tu hai molti anni di vita davanti a te, io ne ho pochi, capisci?”

“No!”

“Peggio per te!” fece l’altro. Pareva che parlasse ad uno della sua stessa età.

“Quella buon’anima di tua moglie,” disse Nicolello, perché aveva sentito dire di lei che andava sempre in chiesa e che raccontava tante cose belle sui santi e sul paradiso, “diceva che dopo la morte si andava in un bel posto e lì si sarebbe vissuto felici e contenti per sempre.”

“Non parlarmi di queste idiozie,” disse lui.

In quel momento sua madre bussò alla porta e lui dovette andare interrompendo così la loro conversazione. Comunque, per quanto breve e poco chiaro quel dialogo con quell’uomo strano e tetro, l’aveva scosso molto, aveva suscitato in lui molte domande, domande che non avevano mai abbandonato la sua testa.

Nicolò è ancora a letto. Si stiracchia. Si alza. Riflette. Non riesce a crederci. Com’era possibile che la sua mente avesse per tanti anni seppellito quei ricordi e che ora li avesse riscoperti, riportati in vita e li facesse scorrere dinnanzi ai suoi occhi con tanta forza e lucidità?

 

1  Perché, perché, perché, dimmi perché!” urla Judy. “Tu hai fatto la tua parte, tu hai fatto più della tua parte, tu hai fatto una grande parte. Perché adesso, proprio in questa fase della tua vita, vuoi diventare un folle? Ti prego, ti prego in ginocchio, dimentica tutto, dimentica questo tuo brutto cattivo sogno e ritorna ai tuoi sensi, alla ragione, alla realtà, alla realtà com’è ora e qui e non com’è là, oltre il mare. Da allora tu sei cambiato e molto. Io ti amo, non posso lasciarti andare così. La tua è pazzia, null’altro che pazzia, unicamente mera pazzia!

2   Mi senti?

3   Merda!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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