Fiori di sierra, romanzo, il ritorno, parte terza (3)

III

Quando Nicolò ritornò a casa quel pomeriggio, vide che c’era un biglietto sotto la porta. Lo prese, lo lesse, si rallegrò. Cinque minuti dopo era pronto per uscire di nuovo. Prima di salire in macchina gli sembrò di udire delle grida. Non ci fece caso. Partì e rincasò verso l’imbrunire con un fagotto in mano. Non appena in casa, ne controllò il contenuto. Vide che l’oggetto era della stessa marca e dello stesso modello di quello che lui aveva provato. Lo esaminò a lungo. Rimase sbigottito. Questa volta non si scherzava. Continuava a fissarlo. Improvvisamente un’ondata di buio gli calò sugli occhi. Anche il suo fiore rosso all’occhiello divenne nero. Si sentì le gambe deboli, la terra mancare sotto i piedi, stava per svenire, stramazzare sul pavimento. Si appoggiò al tavolo per non cadere. Gli saltò in mente di buttarsi dell’acqua sul viso. A tentoni corse in cucina e mise la testa sotto il rubinetto. Quando la tolse, si sentì meglio. Cos’era successo? Fece una smorfia, alzò le spalle. Deciso, prese carta, penna e si mise a scrivere alcune lettere. Quando finì, si alzò, si preparò e andò a cena da suo cugino.

Amedeo e un tipo che lui non conosceva erano seduti vicino al camino. Lucia era indaffarata in cucina a preparare la cena, i figli a guardare la televisione. Nicolò, posato un involucro sulla tavola e salutata la cugina e i nipoti, si avvicinò agli uomini. Amedeo gli presentò il signore che era con lui. Un certo Panzini, uno che apparentemente aveva studiato. Si sedette anche lui vicino al fuoco. Alcuni ceppi di quercia schioppettavano, mandavano scintille tutt’intorno e la fuliggine turbinava sopra le fiamme.

“Hai sentito cos’è successo?” gli chiese Amedeo non appena Nicolò si era accomodato.

”No. Cosa?” fece lui.

“Come cosa?” disse Amedeo sorpreso, pensando che sapesse. “Tu dovresti saperlo meglio di me cos’è successo, abiti lì vicino.”

“Ma non so neppure di cosa stai parlando,” fece Nicolò.

“Hanno fatto fuori il Dritto. L’hanno trovato a pochi metri dal torrente con la testa fracassata. Doveva avere molti nemici, ma andarsene in questa maniera è orribile!” disse Amedeo.

“Una volta,” fece Nicolò, “una cara persona di Johannesburg, disse che per alcune tribù africane, quando muore un vecchio è come se una biblioteca fosse stata distrutta dal fuoco. Peccato che non si possa dire la stessa cosa quando muore un vecchio qui da noi.”

“In altre parole,” fece quel Panzini, “la morte del Dritto non è stata una grande perdita.”

“Appunto!”

“Io non la vedo in questo modo,” disse Amedeo. “Ammazzare un uomo non è una bella cosa.”

“Basta con questa storia!” si udì urlare Lucia dalla cucina e un secondo dopo, esile e graziosa ma arrabbiata, si presentò davanti ai maschi dicendo: “È da un pezzo che non parlate d’altro. Prima tu e il signor Panzini, e ora anche con Nicolò. Smettetela! Vi prego. Non voglio che i miei figli si riempiano la testa con questa vicenda.”

“E di che altro possono riempirsela in un luogo dove il crimine è divenuto una ragione d’essere?” pensò Nicolò, ma non lo disse.

Amedeo, cambiando tono, balbettò scherzosamente: “Non più una parola in merito. Glielo promettiamo, madame!”

“Grazie!” fece lei e ritornò ai fornelli.

I maschi cambiarono argomento, ma non per molto, perché il signor Panzini doveva andare via e, infatti, poco dopo se ne andò.

“Chi è costui?” domandò Nicolò dopo che l’altro se n’era andato.

“Uno dei più grandi proprietari terrieri di Stìdero. Da giovane ha studiato a Roma e, una volta finiti gli studi, non ha voluto più ritornare qui. In quest’ultimo tempo, da quando gli sono mancati i genitori, si fa vedere più spesso,” rispose Amedeo.

“A tavola!” chiamò Lucia.

Durante la cena parlarono di Michele e Maddalena, delle ragazze che erano venute a trovare Nicolò, ancora del Panzini e dei contadini di Calvario. Più tardi, quando i ragazzi erano andati a letto, Amedeo riprese a parlare dell’uccisione del Dritto.

Nicolò non era d’accordo con le opinioni del cugino per cui la vita era inviolabile. Certi uomini, ribatteva, non venivano eliminati in quanto esseri umani, ma per ciò che rappresentavano. Uccidendoli si intendeva colpire l’organizzazione di cui essi si facevano portavoce.

“Violenza, sempre violenza,” fece Amedeo. “Il nostro mondo, poi, è veramente così violento, come vuoi farmi intendere tu in quest’ultimo tempo?”

“Sì, Amedeo,” rispose lui. “Il nostro è un mondo fatto e sostenuto dalla violenza. Qualsiasi valore, anche quello di farsi o non farsi il segno della croce, è un atto di violenza. I valori della non violenza sono valori di violenza. Anzi, sono proprio quelli che creano più violenza. Le istituzioni altro non sono che veri e propri baluardi di terrore. La democrazia, l’etica, la virtù, nella società in cui viviamo, altro non sono che la trasfigurazione della spietatezza e della barbarie.

“Qui da noi poi, nella regione Schidiscita, la violenza creata dallo Stato si trasforma in protesta, in rivolta. Questa non viene intesa dalle autorità come tale, non qui da noi, ma come crimine, come banditismo. Uno spregiativo, questo, ingiustamente affibbiato a coloro che si battono contro la bestialità legalizzata, il potere che viene dall’alto.”

“Detto tutto in una volta, viviamo in una giungla sociale,” disse Amedeo.

“In una giungla dove la brutalità è di casa e l’umanità è l’eccezione”, disse Nicolò.

“Giungla e basta”, fece Amedeo.

“Con la differenza che”, continuò Nicolò, “in quella animale dominano le bestie più forti; in quella umana le combriccole più forti. Queste sono la morte dell’individuo e della creatività. È per questo che io non ho mai creduto alla morale dell’altra guancia. Non credo neppure alla morale della violenza. Solo che, se quest’ultima è necessaria, la prima, quella dell’altra guancia, no, perché solo con la violenza si può mettere fine alla violenza; solo con una violenza giusta si può eliminare la violenza ingiusta. Continuare a schiaffeggiare gli schiaffeggiati senza che essi possano difendersi, non mi pare meno violento.”

“C’è una soluzione per ammorbidire l’inumanità in cui viviamo?” chiese Amdeo.

“Dicono che l’uomo deve crescere, e che cresca; che deve realizzarsi, e che si realizzi; che deve trastullarsi, e che si trastulli; che deve volare in alto, e che voli; che deve diventare un dio, e che lo diventi; ma non lo faccia, non lo faccia, perdìo, sulla pelle degli altri!”

“Sai Nicolò,” fece ora il cugino, “non ci crederai, ma devo dirti che, prima che tu arrivassi, la mia vita era semplice, serena e mi credevo l’uomo più felice della terra. Adesso, e sono trascorsi solo alcuni mesi dal tuo arrivo, non mi riconosco più. Niente funziona come prima. Il mio mondo è cambiato radicalmente e drammaticamente. È diventato brutto, pericoloso, appunto, una giungla organizzata! E non solo. Sento anche il bisogno di capire più a fondo le cose, sento sorgere in me curiosità, insoddisfazione, un sacco di dubbi su tantissime cose e un forte senso critico. Si è scatenato l’inferno nel mio essere. E, dall’uomo più felice della terra che ero, sono diventato il più infelice. E tutto questo, naturalmente, grazie a te!”

“Ne sono lusingato,” fece lui scoppiando a ridere.

Lucia, che non aveva aperto bocca, guardò il marito stupita. Beh, che poi fosse l’uomo più infelice della terra, questo proprio non lo credeva. Continuò a guardarlo e mentre lo guardava, scoppiò a ridere anche lei. Quando smise, domandò a Nicolò cosa avrebbe fatto durante le feste.

Raccontò la stessa storia che aveva raccontato a Michele e Maddalena.

Lei gli credette, Amedeo no. Questi ricordò di averlo sentito dire che sarebbe andato via verso la fine dell’anno, e adesso, mancava poco a questa data.

 

 

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