Fiori di sierra, romanzo, il ritorno, parte terza (IV)
IV
Tutto diveniva, tutto scorreva, tutto passava, il tempo stringeva per le cose e per la vita. Ancora qualche giorno e poi le feste natalizie. A Calvario, la sera, i contadini tornavano a casa col solito seguito di cani, pecore, capre, zappe e fascine sulle spalle o sulle groppe dei loro asini, ecco gli involucri colorati e fruscianti che portavano a casa, alle loro famiglie. Malgrado ciò, le donne riuscivano a dare loro e ai loro bambini il senso di quell’atmosfera festiva, e così nell’aria s’incominciava a sentire odore di frittelle, di dolci e di allegria.
Nicolò dormiva poco in quell’ultimo periodo. Un senso di rivolta lo dominava. Qualcosa si era incrinato in lui senza che avesse avuto modo di prevenirlo. Mal sopportava queste prepotenze del corpo e ancora di più passare le notti in bianco. Decise di andare da un dottore per farsi prescrivere dei sonniferi.
Più tardi andò a salutare sua madre al cimitero. Il luogo dei morti, questa, volta gli apparve familiare, quasi accogliente in quella calma che precede l’annottare. La sua compostezza lo trascendeva, sembrava metterlo in diretto contatto con l’aldilà, lì dove le tenebre brillano in eterno. Non provava più timore per quei cipressi che gemevano leggermente come la prima volta che era andato a trovarla. Ora avvertiva un senso di pace, di riposo.
Dopo aver messo i fiori sulla tomba, ebbe un attimo di raccoglimento, poi iniziò a parlare con la madre.
“Mamma, una cosa non ho mai potuto dimenticare, anche se ho cercato più volte di farlo: l’insulto che ti ha recato quell’essere mentre eri andata a chiedergli un lavoro e un piccolo prestito per comprare qualcosa da mangiare a noi, i tuoi figli. E lui, come ti ha ricevuta? Cosa ti ha fatto?
“Ti vedo ancora ritornare a casa con la veste strappata, sento ancora le tue parole: “Sono scivolata, caduta,” e ti vedo ancora alzarti nel mezzo della notte per andare a lavarti e a lavarti e a lavarti come se avessi voluto toglierti di dosso la rogna, e questo per quasi tutto un mese, un mese in cui sembravi avere il demonio appiccicato alle viscere. “Sono scivolata, caduta.” Allora ti ho creduto, ma poi, poi, come continuare a farlo?
“L’affronto di quell’uomo non ho mai potuto scacciarlo dal mio cervello, mai!
“Tu povera, sola e indifesa; lui ricco, circondato da leccaculo e ben difeso; tu nulla, lui tutto e, costui, invece di portarti rispetto, avere compassione, invece di capire la tua situazione disperata, invece di aiutarti, cosa fece? Ha approfittato e abusato di te così vigliaccamente, portandoti via l’unica cosa che ti era rimasta: l’onore, e in che modo!
“Questa vicenda, questa orribile vicenda mi ha inseguito ovunque, sporcandomi l’anima e il cuore ogni volta che ci pensavo.
“Sai, mi ci è voluto del tempo per capire le ragioni che ti spingevano alla cattiveria, a quel tuo continuo bastonarmi. Non eri tu in verità la cattiva, perché quando c’era cibo in casa tu eri buona, in quei momenti saltava fuori dal tuo cuore l’umano, l’affetto che avevi per i tuoi figli, l’amore. Questo succedeva raramente, ma succedeva, come quando mi riempivi più volte il piatto di minestra.
“La tua cattiveria o, meglio, la tua paura, si manifestava solo quando eravamo pieni di debiti e del cibo in casa non si vedeva neppure l’ombra. In quei momenti, non sapevi più dove bussare, cosa fare, dove sbattere la testa, ti prendeva il batticuore, la paura, la paura che noi, i tuoi figli, morissimo di fame. Era allora che vedevi tutto nero, che diventavi crudele, specialmente nei miei riguardi. Ah, sapessi quante volte mi ero chiesto perché questa tua ira, questa tua ferocia, e quante volte ho dovuto fare marcia indietro, travolto, a mio turno, dall’odio e dall’ignoranza!
“Sì, Mamma, mi ci è voluto del tempo per capire tutto ciò, ma ci sono arrivato. Oggi lo so, lo so benissimo. Non eri tu la cattiva, affatto. Sono tante le nostre piaghe, Mamma, ma quelle della miseria e dell’ignoranza, sono le più atroci.
“Una volta Sylvia, se l’avessi conosciuta ti sarebbe piaciuta, mi chiese cosa volevo dalla vita e io le risposi che volevo capire perché una classe di uomini ne tiranneggia un’altra. Disse che prima o poi ci sarei arrivato. Aveva ragione, ci sono arrivato, a modo mio, ma ci sono arrivato. Questo però non mi ha spinto all’amore, ma all’odio! L’odio, Mamma, non è naturale. Nasciamo tutti con la gioia di vivere, di essere, di fare. L’odio però non è come la gioia, non è una cosa innata, istintiva, l’odio no, l’odio si apprende a casa, nelle aule scolastiche, per le strade, al lavoro. L’odio è culturale, Mamma e, prima di tutto, l’odio è istituzionale, politico, ideologico. Sono gli esseri umani che hanno creato l’odio sulla terra. La nostra è una cultura che crea e insegna a odiare. E io odio, odio, odio!
“Via, via, non parliamone più! Non rimpiango niente, o forse sì, forse qualcosa rimpiango. Vedi, avrei voluto non prendere le cose tanto sul serio, ma soprattutto avrei voluto saper ridere, ridere di me stesso. Non come ridono i bambini, i babbei, ma come ridono i filosofi. Peccato, l’umanità dovrà privarsi del mio sorriso filosofico.
“Addio, Mamma!”