Fiori di sierra, romanzo, il ritorno, parte terza (V)

V

A casa, Nicolò, trascorse il tempo, quel tempo che gli era rimasto prima della partenza, esercitandosi con quell’aggeggio che l’aveva tanto terrorizzato quando gli era venuto tra le mani la prima volta. A furia di vederselo continuamente lì, di smontarlo e rimontarlo, di guardarsi allo specchio fingendo di usarlo, aveva cominciato ad abituarcisi, a prendervi persino dimestichezza. Lo provava anche. Lo faceva tirando su un sacco di sabbia. Funzionava a meraviglia, un vero gioiello di distruzione. La polvere bruciata aveva uno strano odore, un odore di potere e di morte. Alla fine, a via di training, aveva scoperto che quel “coso” non gli faceva più paura. Anzi, con l’esercizio e la familiarità, ad un certo punto gli era sembrato di formare una sola cosa con il suo aggeggio sputa fuoco.

Prima di congedarsi dalla dimora che l’ha visto nascere, da quella dimora sotto il picco sporgente del monte Agave, dimora di sogni e di incubi, va a dare ancora un’occhiata al pargoletto nudo e grasso della foto. Quell’incantevole show, quel grande parco giochi, in cui Nicolino era pronto a ridere, si era trasformato in uno spettacolo infernale. E pensare che, all’apparenza, tutto sembra così pacifico, sereno, idilliaco. I bambini percepiscono male le cose, i bambini sono innocenti, e l’innocenza è cieca. Non gli viene da ridere questa volta come gli era capitato quando aveva visto la fotografia al suo arrivo. Fa solo un ghigno, un gesto istrionico e poi parte.

Va a cercarsi un albergo lontano da Stìdero. Si ferma là tre notti e due giorni. Solo la donna di servizio è entrata un paio di volte nella sua camera a portargli da mangiare. Trascorre il tempo leggendo, guardando dalla finestra la gente che passa sulla strada e pensando a tutte le possibili svolte del suo piano: “E se …”  “Allora …” Oppure a cosa avrebbe detto quando si sarebbe trovato faccia a faccia con l’uomo che più volte nella sua vita aveva chiamato in causa.

È il giorno di Natale. Manca poco a mezzogiorno. Nicolò, vestito di tutto punto, fiore rosso all’occhiello, borsa in mano, scende la scala dell’albergo. Va verso la reception. Un ometto coi baffi e la barba lunga di parecchi giorni siede alla cassa. Nicolò regola il conto, lascia una mancia alla donna di servizio, saluta, esce.

Al parcheggio, apre la portiera della macchina, mette la borsa sul sedile a fianco al suo, entra, avvia il motore, si mette in viaggio. La strada è deserta. Sono già tutti a casa, pensa, tutti pronti per la grande abbuffata.

Avanza lungo un rettilineo come in un sogno, non sente neanche il motore. La giornata è limpida ma fredda. Da un lato della strada c’è il mare liscio blu bello; dall’altro i campi, le colline, le montagne di Fiermonte. Mai la natura gli era apparsa così bella.

Continua a pensare a come porterà a termine l’operazione. Non può trascurare il minimo dettaglio, non può fare il minimo sbaglio, tutto dev’essere previsto, tutto deve funzionare come un orologio.

“Fra un’ora circa arriverai dinanzi alla villa del Lazzaro. Sai com’è fatta, ci sei già stato quando hai lavorato per lui. Allora non c’era il cancello d’entrata, adesso sì ed è provvisto di videocitofono e intorno al vasto giardino c’è un alto recinto di filo spinato, anche questo allora non c’era. Lo tagli, entri, prosegui tra gli alberi verso l’abitazione, t’introduci nella villa attraverso la porta sul retro che è quasi sempre aperta oppure, nel caso fosse chiusa, da una finestra. “Cani non ce ne sono e neppure guardie o giardinieri. Puoi procedere tranquillo. Raggiungi la sala da pranzo in fondo al corridoio. Da dietro la porta sentirai un brusio di voci e rumori di posate e stoviglie. Sarai nervoso a questo punto, dovrai controllarti, e non è assolutamente necessario spalancare con fragore la porta e fare irruzione nella sala. Entra col tuo aggeggio spianato sì, ma con grazia.

“Apri. Guarda. Vai dentro. Proprio come ti aspettavi, tutti lì a mangiare intorno ad una grande tavola riccamente apparecchiata. A servirli ci saranno due camerieri e quella vecchia serva che non muore mai. Come ti vedono questi, spariscono. Se non lo fanno, glielo ordini. Gli altri invece rimangono lì sul posto paralizzati dallo spavento. Le loro bocche, una dopo l’altra, smetteranno di masticare, le loro espressioni si coaguleranno in un’immagine apocalittica, i loro cuori, vicini all’infarto. Come vedrai il capofamiglia, il tuo vero nemico, canuto e grasso, con gli occhi avidi e torvi, vorrai farlo immediatamente fuori. No! Calmati. Trattieni il fiato. Controllati. Non irrigidirti. Sangue freddo. Il self-control qui è di rigore. Solo questo ti aiuterà a portare a termine l’operazione.

“Ricordati tua madre con gli abiti stracciati, il viso stravolto e quel suo alzarsi e lavarsi durante la notte. Mescola questo ricordo con l’azione indegna di quella canaglia che ti sta davanti, fai che l’odio raggiunga il suo culmine, che si esalti, fai che paghi per l’inumano crimine che ha commesso.

“Ancora qualche passo verso di lui e tieni bene sott’occhio tutti gli altri. È tuo il gioco. Le regole le deciderai tu.

“A questo punto la tensione è alle stelle, i nervi non reggono più, qualcosa succederà. Se non sarà lui stesso, allora sarà uno dei figli, forse quello che vuole diventare sindaco di Stìdero oppure l’altro, quello che scarrozza per le vie della cittadina con la sua Porsche nera, Camillo, che ti salterà addosso con un coltello in mano. Se le cose andassero così, non avrai scelta, tutto vacillerà, dovrai tirare. Il dito premerà il grilletto e l’aggeggio si metterà a sputare fuoco. Le prime pallottole s’infileranno sul temerario come in quel sacco di sabbia a casa.

“Dopo quest’atto tutto diventerà caos urli imprecazioni strage. Non ti resta quindi che girare la canna nella direzione giusta e all’istante vedrai la morte ballare, vedrai i corpi destinati a perire correre saltare gridare cercare scampo da quella pioggia di ferro, ma scampo non ci sarà.

“Naturalmente, una figura tra tutti quei morti, e non per caso, rimarrà illesa: è quella di Lazzaro. Il vecchio, quando realizzerà che tutta la sua prole giace sul pavimento di fronte a lui, sarà confuso, stordito, pazzo dal dolore e non saprà decidere se avventarsi su di te o raccogliere l’ultimo respiro dei morenti.

“Decide! È ovvio. Si getta su di te coi pugni serrati nonostante la sua età. Tu l’accogli come si deve: con un colpo col calcio del tuo aggeggio sputa fuoco tra collo e testa e un paio di calci nello stomaco. Cadrà sul pavimento e si metterà a gemere, a strisciare. Non avere nessuna pietà, come lui non ne ha avuto per te quando lavoravi per lui né per tua madre. Fai quello che devi fare e fino in fondo. Ricordati: è il tuo gioco!

“Posi l’arma sul tavolo, afferri quel maiale, lo tiri su, lo imbavagli e con la corda che hai in borsa lo leghi a una sedia. Mentre farai questo lui ti guarderà con occhi pieni d’ira, ti farà un cenno di sputo. Tu continuerai a controllarti, pretenderai di non notarlo, continuerai a essere di ghiaccio perché, prima di finirlo, devi vomitargli addosso tutto quello che ti ha roso dentro per anni e anni. Il tempo ce l’hai. Prima che i servi avvertano la polizia, sempre che l’avvertano, passerà del tempo, quindi fai le cose bene e con calma. È importante. La tua voce dovrà essere fredda, fustigante.

“Brutto figlio di …”

“No, non così, non ancora. Prima dovrai dirgli la ragione di quel massacro e in modo pacato quanto più puoi. Calmati. Trattieni il fiato. Controllati.”

“Lurido … ”

“E di nuovo! Non è necessario per il momento usare questo linguaggio. Digli quello che devi dirgli prima con decoro e poi, se vuoi, sfogati. Su, dài, inizia di nuovo.”

“Non ho mai, …”

“Così va già meglio. Continua.”

“Vedi, vecchio, nonostante la volontà di mia madre, che voleva a tutti i costi che io vendicassi mio padre uccidendo il suo assassino all’uscita del carcere, nonostante ciò, non l’ho fatto, non ho neppure mai pensato di vendicare mio padre, dato che non ho conosciuto e non conosco la ragione per cui l’omicida l’ha ucciso. Non si può uccidere una persona se prima non si hanno certezze. Su di te io, però, ne ho, e tante!

“Pensavi di andartene senza pagare per i tuoi numerosi crimini, crimini di guerra, crimini di stupro, crimini di sfruttamento, crimini di ogni sorta. Ebbene, ti è andata male.

“Mi riconosci?

“Vedi, quando sono arrivato a Stìdero, la prima cosa che ho fatto è stata quella di chiedere se tu fossi ancora in vita. Mi hanno risposto di sì, così mi sono fermato, altrimenti avrei fatto dietro front e sarei sparito di nuovo.

“Devo dirti anche che non sono mai riuscito a capire, a capire perché tu mi sei rimasto appiccicato nel cervello. Si vede che le esperienze forti e brutte che facciamo non si dimenticano mai, mai la memoria le cancella, si inseriscono nel nostro Dna e lì restano, come il mio ricordo nei tuoi confronti.”

Nicolò sta andando forte senza neppure rendersene conto. La strada non è più rettilinea, ci sono curve, deve fare attenzione. Ne prende una male e in un’altra si è portato tutto a sinistra tanto è concentrato su cosa dire a Lazzaro non appena l’avrà davanti.

Si accorge, tutto d’un colpo, che si sta avvicinando alla sua casa. Smette di pensare a cos’altro avrebbe potuto sputare su quell’essere depravato prima di liquidarlo. Ferma la macchina su un’altura che conosce bene. Prende il binocolo e guarda in direzione della villa. La porta di dietro è semiaperta e anche una finestra. Questo gli faciliterà il compito. Punta il binocolo sul davanti della casa. Nota che ci sono soltanto quattro automobili parcheggiate, ne manca una, la Porsche nera di Camillo, il figlio più giovane. “Il primo dell’anno con chi vuoi, ma Natale coi tuoi,” non si dice così? Forse sarà in ritardo, arriverà presto.

È l’una passata. Vuole trovarli tutti a tavola. Lo scoccia questo imprevisto. Usualmente all’ora di pranzo, in un giorno qualunque della settimana, aveva visto sempre cinque macchine parcheggiate lì. Adesso solo quattro e per di più il giorno di Natale! Che non sia andato via, in vacanza, a mangiare altrove? Aspetta per vedere se arriva la Porsche di Camillo. Niente, non spunta da nessuna parte. Cosa fare? Ancora qualche minuto, poi, con lui o senza di lui, riprenderà la strada.

Dal punto in cui si trova, il mare appare favoloso, un sogno, ma lui non lo vede neppure, ha solo una cosa in testa, il resto non esiste. Nicolò, ed è forse questo il punto più spinoso di questa fatalità, è pienamente conscio di essere sprofondato di nuovo in quel mondo cieco, rozzo, brutale in cui era nato, lì dove regnano, non la civiltà e il buon vivere, ma l’inciviltà e la brutalità. Lui, dopo tutti gli studi che aveva fatto e a che prezzo, ridotto in quel modo, portato a quel gesto!

La luce si stava trasformando rapidamente in una gamma di baleni impressionanti. Era la danza degli atomi, degli elementi ultimi che si manifestavano in sinistre acrobazie rendendo l’equilibrio sempre più precario e, il funambolo, a molti metri dal suolo, senza pertica e senza rete di protezione, aveva la fune tesa davanti a sé, in un circo privo di spettatori.

Nessun segno di Camillo. Bene! Decide di proseguire. Al diavolo con il più giovane della famiglia Lazzaro, a lui interessa il vecchio, è costui il colpevole, il resto di loro non gli interessa, che vivano tutti cent’anni o che crepino domani, chi se ne frega! Accelera. Va di nuovo forte.

Si sta approssimando al tratto di strada non asfaltata. Sente un rumore. È il rombo d’una macchina. Guarda nel retrovisore. È la Porsche nera di Camillo! Corre. È in ritardo. Nicolò che si trova ora sulla strada polverosa, aumenta la velocità per non farsi sorpassare proprio lì. Ma la Porsche, nonostante la polvere, si sta avvicinando a lui a grande velocità, gli è già alle calcagna clacsonando. Vuole strada. Nicolò si mette addirittura nel mezzo. L’altro se ne accorge, pensa che la polvere non piaccia a nessuno. Non molla, continua a tallonarlo con aggressività e insistenza maggiori. Continua a clacsonare, a fare un chiasso terribile, gli tocca persino il parafango. Nicolò sente l’urto. Non si arrende nemmeno lui, anche se l’altro finirà per andargli brutalmente addosso, se continua così. Suda freddo, ha le mani madide, si sforza di tenere la macchina in strada.

Si avvicinano a una curva. La Porsche coglie proprio lì il momento adatto per sorpassarlo e ci riesce in una volata di fracasso e di polvere. Nicolò non vede più niente, cerca di rallentare, frenare, bloccare la macchina. Non ne è capace, va troppo forte, perde il controllo, sbanda, esce di strada, cozza. Lo schianto risuona nei dintorni come una cannonata.

Il Lazzaro la sente da casa. Preoccupato per il figlio che non è ancora arrivato, esce per vedere cos’è successo. Vede solo una nuvola di polvere turbinare nell’aria. Ode il motore di una macchina ferma. Gli pare quella di Camillo. Dice agli altri, già seduti a tavola, che va a vedere cos’è successo.

Nicolò, tutto ammaccato, riesce a mala pena a muovere una delle mani. Se la porta sul viso. La ritira tutta imbrattata del sangue che gli stilla dalla testa, gli cola sul petto e lungo il corpo. Le gambe non trova modo di muoverle, non sembrano sue. Dolori atroci incominciano ad assalirlo. Vuole liberarsi dalla posizione in cui si trova intrappolato, ma è incapace di fare il minimo movimento. È preso tra la ferraglia.

Passa del tempo. Inizia a udire voci. Gli sembrano d’un altro mondo. Sente rumori, pare che lo tocchino, avverte, vagamente avverte che delle mani lo stanno tirando fuori dall’automobile. Vede della gente che lo guarda, che lo circonda. Tra quelle facce c’è anche quella del Lazzaro. Nicolò lo riconosce. Riesce a fare una smorfia, a mordersi le labbra, a pensare a quant’è beffarda la vita.

Mentre lo adagiano sul sedile posteriore di un’altra macchina, una Porsche, vede che la sua si è schiantata contro il tronco d’una quercia. Non appena l’hanno sistemato, l’autista si mette subito a correre e a clacsonare lungo la strada. Questo continuo clacsonare e questa corsa gli ricordano qualcosa, gli sembra di vedere, e infatti vede, prima qualcosa di sfumato, poi più chiaro e, infine, vede il viso di Sylvia. È favoloso. Ce l’ha dinanzi agli occhi tutto splendente di luce e di amore. Fa ancora uno sforzo. Riesce a portare la mano che appena può muovere nella tasca dove c’è lei, la tocca, la stringe. In quel mentre, le sue labbra si schiudono in un sorriso, poi perde coscienza e non vede più nulla.

Fine

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