Il bambino che si rifiuta di crescere – racconto in due post: prima parte
Era ormai da alcuni anni che Enrico faceva delle strane cose: si caricava di oggetti pesanti e s’infilava come una talpa in vani angusti e stretti. Quand’era in questi buchi avanzava piano e con sforzi e si fermava solo quando sentiva la pressione che proveniva dal suolo e dalla volta rompergli le ossa. A casa il suo posto preferito era il solaio. Qui s’incastrava tra il pavimento e una trave e restava lì per ore. Anche la tavola in cucina gli andava bene quando i genitori non erano in casa. Era una tavola pesante, di quercia. Enrico si piazzava sotto al centro e cercava di sollevarla con le spalle. Solo quando sentiva il peso gravargli fortemente addosso, smetteva di sollevarla e se ne stava là fin quando riusciva a sopportare il peso, fin quando, a volte, uno dei genitori non ritornava a casa dal lavoro. Questi non trovava nulla da dire al figlio vedendolo lì sotto, pensava che stesse giocando, facendo qualche strano esercizio fisico. Si limitava a dire: “Continua ad allenarti, Enrico!”
A scuola, che si trovava ad un chilometro da casa sua, Enrico ci andava con una grossa cartella, non tanto piena di libri e quaderni, quanto carica di pietre. Le teneva nascoste nel giardino e, senza farsi vedere, trovava sempre il modo di metterle nella cartella prima di andare a scuola. Arrivava in classe tutto curvo e col fiatone. Una volta lì, non vedeva l’ora che suonasse il campanello per la ricreazione, perché nel basamento dell’edificio scolastico aveva trovato la rampa di una scala di facile accesso, posto ideale per incastrarsi come un cuneo tra il pavimento e la rampa. Enrico non lo si trovava mai tra gli altri scolari durante la ricreazione, lasciava che i suoi compagni si divertissero correndo e strillando a destra e a sinistra come animali isterici, mentre lui si eclissava, si andava a mettere sotto la rampa.
Capitava che il suo insegnante d’italiano, ch’era una persona tanto buona quanto insignificante, lo vedesse sollevare la cartella in classe (Enrico sedeva all’ultimo banco), caricarsela sulle spalle e rimanere lì, con quel peso addosso, mentre lui faceva lezione. Un paio di volte l’insegnante l’aveva sgridato, persino punito, però Enrico aveva la testa dura; quella dell’insegnante era più tenera, anche se più vecchia, perciò, stufo di sprecare il fiato e di farsi salire la pressione a causa di quell’alunno matto e squilibrato, aveva finito per lasciarlo in pace, al suo destino, lo ignorava. Anche gli altri ragazzi avevano imparato ad ignorarlo.
Enrico non poteva però sfuggire a qualche castigo di maestri più severi e tanto meno a qualche presa in giro dei compagni di classe. Ma queste punizioni per lui erano cose da nulla, le accettava con rassegnazione. Solo una cosa gli interessava: sentirsi il corpo sempre afflitto da un forte peso. Era questo ciò che lui desiderava e riusciva a farlo alla grande.
Aveva scoperto, vicino a casa sua, un ponticello e il fiume che passava sotto era, per la maggior parte dell’anno, secco. Enrico lo preferiva alla trave del soffitto e alla tavola in cucina. Così, quando ritornava da scuola, prendeva il cibo che sua madre gli aveva lasciato nel frigo e lo buttava nel bidone della spazzatura e poi correva a mettersi sotto il ponticello. Una volta là, si metteva tanto quanto poteva con le spalle contro la volta e i piedi ben fermi per terra e poi se ne stava lì per delle ore. Sul ponticello potevano passare, c’era scritto in una segnaletica stradale, solo vetture dal peso di non più d’una tonnellata. Quando ciò avveniva e lui era lì sotto con le spalle contro la volta, sentiva che il peso e le vibrazioni gli spezzavano le ossa. Quello che voleva. Ci provava addirittura gusto. Avvertiva che aveva inflitto un terribile danno a tutta quella roba che cresceva nel suo corpo e che lui non voleva far crescere.
Trovava sempre scuse per non mangiare. Solo quand’era morto di fame inghiottiva un boccone. Cibo e crescita erano i suoi peggior nemici, doveva controllarli con la sua forza di volontà ed Enrico, di questa, malgrado la sua tenera età, ne aveva tanta.
I suoi genitori, che avevano alte responsabilità di lavoro, non trovavano mai tempo per il figlio. Infatti, non appena Enrico aveva imparato ad andare a scuola da solo, si sentirono sollevati da un altro impegno nei suoi confronti Del suo strano comportamento si accorsero quando Enrico si era ormai perfezionato nell’arte di rimanere sempre bambino. Non si preoccuparono più di tanto. Pensarono che il figlio fosse un po’ estroso, originale, gli si addiceva e se ne compiacquero.
Intanto lui, il figlio, continuava a guardarsi allo specchio. Non vedeva crescita, vedeva solo che stava diventando curvo e magro, e questo gli dava l’impressione non solo di non stare crescendo, ma, addirittura, di rimpicciolire: proprio quello che desiderava.
I nervi della sua professoressa di storia furono i primi a cedere quando Enrico le disse senza mezzi termini che si rifiutava di studiare quella materia. E perché? Perché la storia è brutta. E perché è brutta? Perché è fatta di guerre morte violenza fame odio e lui non voleva imparare queste cose. La professoressa allora informò il preside, questi i genitori. Si riunirono. Scoprirono anche le altre stranezze di Enrico: che si caricava pesi addosso, che non giocava mai con i compagni durante la ricreazione, che se ne stava sempre da solo. Non c’era dubbio, Enrico era un ragazzo fuori dal comune, un originale o un folle. Si doveva comunque provvedere. Si contattò uno psicologo. Il ragazzo, durante il colloquio, rispose alle domande dello strizzacervelli dicendo che faceva quello che faceva per scherzo, perché gli piaceva farlo. Non era vero, però lui disse così. Lo strizzacervelli pensò che quello di Enrico fosse un esercizio di cattivo gusto, ma se a lui piaceva, perché non lasciarlo esercitare i suoi muscoli e le sue idee come meglio gli pareva? Nessuno ebbe da ridire alle parole dello strizza, tutti d’accordo. Quindi Enrico poté continuare ad esercitarsi in ciò che più gli stava a cuore: nel non voler crescere.
Tutto era iniziato quando aveva visto il vicino di casa picchiare il figlio. Il bambino gridava piangeva strepitava mentre suo padre non smetteva di riempirlo di botte. Enrico corse ad aiutarlo, a tirarglielo via dalle mani. L’uomo gli disse di non intromettersi. Enrico non l’ascoltò. L’uomo allora smise di picchiare il figlio e iniziò a menare l’intruso. Questi, che non si era aspettato quella brutta e cattiva reazione dall’omone, non seppe cos’altro fare, eccetto che prendersi le botte. Infine, quella massa di carne violenta e bestiale gli aveva sferrato un terribile calcio nel sedere dicendogli di non azzardarsi più a immischiarsi in cose che non lo riguardavano ed era corso dietro al figlio che, nel frattempo, se l’era squagliata. Il piccolo Enrico, una volta solo, si era messo a frignare, fortemente scosso dall’esperienza.
Quando la sera raccontò l’accaduto ai genitori, questi gli fecero capire che non avrebbe dovuto intromettersi. Enrico andò a letto singhiozzando e con le lacrime agli occhi.
Poco dopo quella esperienza, due professoresse a scuola, in competizione per le attenzioni del medesimo uomo, prima si insultarono e poi si presero per i capelli. Enrico rimase incantato di fronte a tanta brutalità, di fronte a quelle due femmine scatenate. Ad un certo punto una di loro aveva graffiato il volto della rivale. Questa si era portata la mano al viso e quando l’aveva vista imbrattata di sangue, l’aveva ritratta terrorizzata. Quel sangue l’accecò. S’inviperì. Si scagliò contro l’altra picchiandola a più non posso e strillando come una matta fino a quando il preside in persona non era riuscito a dividerle. Enrico ritornò a casa sconvolto.
Quando quella stessa sera raccontò quest’altra vicenda ai suoi, questi non gli diedero ascolto, gli fecero capire che avevano delle cose più importanti a cui pensare. Enrico andò a letto con il cervello pieno di domande e il cuore gravido di sconforto.
La televisione l’aveva sempre guardata, ma senza farci molta attenzione. Però, quando una volta vide un uomo ammazzare un altro uomo in un modo lento e crudele, ebbe un fremito, uno spavento, non si sentì più sicuro. Da quella volta in poi, nonostante l’orrore, volle vedere altri film di violenza, di guerra. Allora vide stragi, vide corpi mutilati, sangue, bestialità; vide anche bambini che venivano uccisi, altri che morivano di fame; in breve, vide il volto del mondo in tutti i suoi aspetti. C’erano, naturalmente, altre immagini in televisione, altre cose da vedere, ma queste a Enrico non interessavano. Si concentrava su quelle orripilanti, erano queste che l’assorbivano, che attiravano la sua mente, e per la sua giovanissima età, queste visioni erano decisive. E così, coniugando la sua esperienza col vicino di casa, quella delle due maestre in calore, e la ferinità che vedeva alla televisione, Enrico si rese conto che il mondo in cui viveva era un mondo brutale: ne rimase terribilmente shoccato.
Nel prossimo post: seconda parte