Il bambino che si rifiuta di crescere – racconto in due post: seconda parte
Né a casa né a scuola qualcuno gli aveva mai detto che l’uccisione, la guerra, la ferocia, l’ingiustizia, l’assurdo facevano parte del nostro modo di vivere tanto quanto leccarsi un gelato in un caldo giorno d’estate. Enrico, fino ad una certa età, aveva conosciuto solo la realtà del gelato, non quella della barbarie umana, questa era venuta poi. Ora, però, scoperta la ferocia che gli esseri umani si portavano dentro, si era scoperto un altro, uno che aveva paura.
Incominciò a farsi una cattiva idea degli adulti. I suoi stessi genitori non erano un modello da imitare: sempre arrabbiati l’un con l’altro, sempre isterici, sempre con un mucchio di lavoro da fare per la compagnia per cui lavoravano, tanto da essere costretti a portarselo persino nella stanza da letto. Si muovevano per la casa con i nervi a fior di pelle. Enrico non poteva fare nulla quando erano in casa: né giocare né ascoltare musica e neppure piangere, unicamente starsene calmo a fare i compiti in camera sua.
Iniziò ad essere terrorizzato dalle persone adulte. Arrivò al punto che quando incontrava un uomo per strada, se si trovava sullo stesso lato che lui stava percorrendo, lo cambiava, si portava meccanicamente fuori tiro da quell’individuo e si teneva pronto, se fosse stato necessario, a correre via da lui a rotta di collo. Finì per non essere più tranquillo neanche a casa sua, aveva paura perfino dei suoi genitori. Gli adulti erano cattivi, gli uomini erano cattivi, tutti erano cattivi, erano falsi, si odiavano, si ammazzavano tra di loro, uccidevano animali carini come gli agnellini e sempre violenti l’un con l’altro. Non c’era più dubbio per Enrico, crescere era brutto, perché si diventava cattivi, e lui non voleva diventare come loro, quindi per non diventarlo non doveva crescere. Fu così che decise di mettere un freno alla sua crescita mangiando poco, caricandosi pesi addosso e schiacciandosi in vani angusti e stretti ovunque poteva. Enrico non voleva diventare un adulto, tutto ma non un adulto.
E perché poi si doveva crescere? Diventare adulti voleva dire diventare cattivi. Era meglio restare bambini. Lui voleva restare bambino, e per restare bambino doveva mangiare pochissimo, solo quel tanto per non morire. Lo faceva. Inoltre voleva mettere il suo corpo sempre tra due cose sperando così di non svilupparsi. Faceva anche questo. La sua era una ribellione e si chiamava: rifiuto di crescere.
Ecco cos’era filtrato pian piano nella testa del piccolo Enrico, del bocciolo Enrico, ecco come ebbe inizio la sua avventura. Bambino voleva rimanere. Così non si sarebbe un giorno litigato con la moglie come faceva suo padre con sua madre, non avrebbe picchiato il figlio come il suo vicino di casa, non avrebbe ucciso altri uomini e non sarebbe andato in guerra. No, Enrico non voleva crescere, assolutamente non voleva diventare adulto, non diventare grande.
Non odiava nessuno lui, non ci riusciva, voleva bene a tutti, anche a quelli che lo sgridavano, che lo prendevano in giro. Enrico voleva amare tutti e avrebbe potuto amarli solo restando bambino. Anche i tigrotti quando erano piccolini, non erano cattivi, giocavano con i cuccioli delle antilopi ed era bello vederli giocare insieme in tivù. Diventavano però cattivi quando crescevano. Allora divenivano brutali, terribili, belve odiose come gli uomini (Enrico non aveva ancora capito che gli animali facevano ciò che facevano per ragioni naturali, di sopravvivenza, deterministiche; gli uomini invece facevano ciò che facevano per ragioni naturali e culturali). Non c’era più dubbio nella testa di Enrico, diventare adulti era la peggior cosa che poteva succedergli. Non doveva. Sia gli animali che gli esseri umani, una volta cresciuti, non li si riconosceva più. No, no, no, lui non doveva diventare adulto, assolutamente no, e metteva ancora più pietre nella cartella e restava ancora più a lungo pressato sotto il ponticello, perché solo così il corpo non avrebbe potuto crescere.
Quanto sarebbe bello il mondo se fosse abitato solo da bambini, tigrotti, cuccioli, tutti piccolini, animali e umani. Allora le guerre, le crudeltà, i litigi sarebbero finiti, e la vita: un sogno!
Un sabato, ritornando a casa da scuola, Enrico trovò i genitori in cucina che si bisticciavano. Non era la prima volta. Erano tanto imbestialiti che non si erano nemmeno accorti che lui era arrivato. Suo padre era furioso e aveva una brutta faccia, a sua madre tremavano le mani e aveva i capelli tutti scarmigliati. Forse si erano picchiati. A volte lo facevano. Si bisticciavano sempre per la stessa cosa: lui voleva che lei smettesse di lavorare; lei non voleva, diceva a lui di farlo. Lui allora le diceva ch’era matta, che non poteva aspettarsi che lui, un uomo, smettesse di lavorare per prendersi cura della casa e del figlio. Lei allora diceva che le cose erano cambiate per le donne, che ora avevano gli stessi diritti degli uomini e che anche lei non aveva nessuna intenzione di lasciare il suo lavoro per occuparsi della famiglia. A volte papà, mentre si litigavano, perdeva la pazienza e le rifilava qualche schiaffo. Lei si difendeva. Si azzuffavano. Enrico, in quelle circostanze, non cercava di dividerli, gli era stato detto che non doveva farlo, che non doveva mischiarsi tra loro, si metteva però a piangere, e piangeva fino a quando non smettevano di picchiarsi.
Quel sabato, quando li trovò in cucina che si bisticciavano, né il padre né la madre gli rivolsero la parola. Lui andò dalla madre e cercò di abbracciarla, di chiederle qualcosa. Lei lo respinse dicendogli che in quel momento non aveva tempo per lui. Allora andò dal padre. Questi si girò dall’altra parte per non guardarlo. Enrico cercò di aggrapparsi a lui, di dirgli di smetterla di bisticciarsi con la mamma e di non picchiarla. Il padre si liberò di lui con violenza e gli disse di non “immischiarsi”, di lasciarlo in pace perché aveva cose importanti da chiarire con sua madre. Avevano sempre cose importanti da chiarire i suoi genitori, mai tempo per lui, il loro figlio.
Enrico, respinto da ambedue, corse in camera sua e scoppiò a piangere. Restò lì per qualche tempo sperando che i genitori smettessero di litigare e lo chiamassero. Non lo fecero, continuavano a litigarsi, ad essere sempre più aggressivi l’un verso l’altro. Enrico allora corse via da casa con le grida dei genitori che lo inseguivano e andò a rifugiarsi sotto il ponticello, piangendo. S’incastrò lì sotto tanto quanto poté, come un cuneo, con le spalle contro la volta e i piedi ben fermi per terra proprio nel punto più basso e con l’idea di non venirne più fuori. Il mondo degli adulti era un mondo brutto, malvagio, orrendo e lui non voleva averci più nulla a che fare. Lì, sotto il ponticello e per sempre voleva restare.
E, guarda la sorte, fu proprio ciò che accadde: un camion che trasportava un grosso carico di prodotti chimici, sbagliando strada e non avendo visto il segnale stradale, si era lanciato sul ponticello con un gran fracasso. Il ponticello non resistette, crollò. E così, il desiderio di Enrico di non crescere, si realizzò drammaticamente quel sabato pomeriggio, mentre i suoi genitori, ignari di ciò che era successo al figlio, continuavano a bisticciarsi.
mah, un pò troppo naif e scontato.