Il contratto capestro di Marcinelle – in 3 post, il terzo
Il contratto capestro di Marcinelle – in 3 post, il terzo
Non so quanti anni hai tu, Rossi, ma io ne ho abbastanza per ricordare quell’otto agosto del 1956. Ero ancora un ragazzo. Ricordo comunque tutto. Ricordo la signora Giuseppina che, non appena sentita la tragica e funesta notizia, si era messa subito a urlare a più non posso e a strapparsi i capelli in mezzo alla strada: qualcuno le aveva comunicato che suo marito era rimasto seppellito in una miniera in Belgio. Non solo lui. Altri duecento sessantanove minatori italiani avevano fatto la sua stessa fine. Lì, intrappolati come topi, a centinaia di metri di profondità; lì, in quei buchi, cunicoli e pozzi, a morire con la bocca piena, non di pane, ma di terra e carbone.
I lavoratori italiani dovevano firmare un contratto di 5 anni per andare a lavorare nella miniera della morte di Marcinelle. Venivano trasportati lì in treni bestiame, come quelli che i nazisti usavano per trasportare gli ebrei e altri prigionieri di guerra. Una volta in Belgio venivano disinfettati come se fossero stati pieni di pidocchi e di altri parassiti e poi, solo poi, accolti in un campo di concentramento della Seconda Guerra Mondiale. Dopo qualche settimana di lavoro, cioè dopo che i lavoratori avevano provato la durezza e il pericolo di quel posto d’inferno dov’erano finiti, anche se non avessero voluto più starci, anche se avessero deciso di ritornare nel loro paese, non avrebbero potuto. Perché non avrebbero potuto? Perché il “contratto capestro” che avevano firmato, stipulato a tavolino dai degnissimi governanti dei due illustri paesi, li obbligava a lavorare nella miniera della morte per i 5 anni stabiliti. Quelli che non rispettavano il contratto che avevano innocentemente e per necessità di sopravvivenza firmato con una croce o qualche altro scarabocchio, venivano incarcerati presso le petit chateau dove molti di loro marcivano, morivano di fame, di umiliazione e di crepacuore.
Ma la cosa più indegna, inumana e vergognosa di tutta questa vicenda è che lo Stato predatore italiano vendeva, dico “vendeva!”, allo Stato predatore belga, per soli due quintali di carbone, la vita di un lavoratore italiano. Scambio di vite umane in cambio di materia prima. Duecento sessantanove vite umane per soli 540 quintali di carbone, duecento sessantanove vite umane per dare una vita bella agli abietti e spregevoli parassiti del Bel Paese: ecco a cosa serve il popolo agli Stati predatori!
E così, quel giorno, quel lontano giorno di agosto del 1956, la signora Giuseppina, dopo aver sentito la tragica e funesta notizia, si era messa subito a urlare a più non posso e a strapparsi i capelli in mezzo alla strada, perché in quel luogo straniero e della malora, suo marito, il padre dei suoi cinque figli, l’unico che dava loro da mangiare, da vivere, da sperare, era rimasto sepolto sotto migliaia di tonnellate di terra e carbone. Lì, intrappolato come un topo, a centinaia di metri di profondità; lì, in quei buchi, cunicoli e pozzi, a morire con la bocca piena, non di pane, ma di terra e carbone!
È cambiato qualcosa, ci chiediamo noi oggi, più di mezzo secolo dopo questa triste e infelice vicenda, è cambiato qualcosa tra morire nella miniera della morte di Marcinelle o morire in fondo al mare, tra Lampedusa e l’Africa, come oggi succede spesso agli extracomunitari? E non solo, la politica inumana e barbara degli Stati predatori di allora e la politica degli Stati predatori di oggi, è cambiata o è diventata, grazie ad una retorica verbosa e inutile, ancora più bestiale, indegna e disumana?
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