Il Contratto – racconto in 7 post: parte seconda
La tirannia del tempo
Il tempo non esiste, il tempo è vita, il tempo è consapevolezza, il tempo è indifferente, però quando si firmano contratti, il tempo vola, il tempo, col suo silenziosissimo tic tac, avanza, avanza alla velocità della luce e senza tregua.
Erano già trascorsi parecchi mesi dalla sera del suo trentunesimo compleanno e a Max sembrava un istante prima. Doveva ancora entrare nell’idea del matrimonio ideale, doveva ancora mettersi alla ricerca della sua compagna, ancora finalizzare il procedimento da adottare.
Gli veniva, e non sapeva spiegarselo, gli veniva da ridere, da far lo scemo quando pensava a quanto si sentiva impegnato a quel suo contratto, a quanto lo prendeva sul serio e a quanto gli aveva cambiato la vita da un momento all’altro. Non si sentiva più come un asteroide lanciato nello spazio e nelle tenebre e senza un obiettivo da centrare. Ma poi, in realtà, era tutto così semplice e trasparente, tutto così normale? Per nulla.“Quando si tratta dell’amore, nessuna generazione ha mai imparato da un’altra come amare,” diceva il filosofo danese Sören Kierkegaard. “Proprio così,” aggiungeva Max, “e non solo.”
Ma poi, in fin dei conti, cosa intendeva, Max, per matrimonio ideale? Non molto, in realtà. Voleva che la sua ipotetica compagna non fosse stata sposata e, inoltre, voleva trovarsi una compagna possibilmente un po’ più solare e allegra di lui, possibilmente con un pizzico d’ironia, possibilmente con delle affinità in comune e con la quale condividere la sua sorte. Questo gli pareva importante. Non era tanto la bellezza che aveva peso, quanto che la ragazza fosse conscia della grande responsabilità e ricchezza che la vita e lei stessa rappresentavano. Era questo il tipo di donna che lui cercava.
Il sesso? Lo considerava allo stesso piano del mangiare e del bere, e non avrebbe mai potuto giudicare una persona dai suoi atti sessuali, perché sarebbe stato come giudicarla dalle sue funzioni digestive. Vedeva se stesso, sotto questo aspetto, come una macchina biologica e avrebbe considerato innaturale non soddisfare le proprie esigenze fisiologiche. Nonostante ciò, il sesso, l’amore, i sentimenti erano importantissimi. Max non avrebbe mai fatto all’amore a spese dell’altra, ma solo con mutuo accordo. Continuava a pensare che, al di fuori di un buon rapporto con la propria compagna, non c’era vita, ma solo desolazione, incomprensioni e stolti aggiustamenti esistenziali. Era la sua opinione.
Ultimamente aveva preso l’abitudine di analizzarsi e, una volta messosi faccia a faccia col proprio io, aveva capito che c’era solo un amore: l’amore per se stesso. Questa intrinseca connaturata realtà, questa forza istintiva dell’auto-conservazione e dell’auto-idealizzazione di sé, lo portava a credere, assurdo quanto si vuole, che l’amore non esisteva. Il tirannico ‘io’, il re dell’egoismo sempre vittorioso sull’altruismo, era costantemente in agguato: solo lui esisteva. Il vero amore, come giustamente insegnava François de la Rochefoucauld, è l’amour-propre est l’amour de soi-même et de toutes choses pour soi.
Era questo che voleva fare intendere alla sua ipotetica compagna di vita. Max cercava una donna, una donna che capisse e accettasse questa terribile verità: che il solo, l’unico amore assoluto, altro non era che l’amore di sé. Eppure, nonostante questa sua convinzione, tentava, si sforzava di trasformare il suo ‘io’ egoista e soggettivo in un ‘io’ altruistico e oggettivo. Era convinto che uno era pronto per amare solo dopo aver capito la vera natura dell’amore e la vera natura dell’amore, non era ignoranza ed istinto riproduttivo, era lucidità mentale.
E così, con questa idea in mente, Max presto si sarebbe messo alla ricerca d’un amore, un amore ideale!
Ruth
Qualche anno prima aveva iniziato una relazione con Ruth. L’aveva conosciuta al pronto soccorso del Prince Henry Hospital, un sabato sera. Aveva forti dolori allo stomaco. Nella sala d’attesa c’erano molte persone sofferenti, tutte che aspettavano di vedere alleviati i loro malanni. C’erano solo due medici di servizio e si dava precedenza a quelli in condizioni più gravi.
Mentre aspettava, Max aveva incontrato più volte gli occhi di Ruth, un’infermiera. Aveva occhi stupendi e tutte le volte che usciva dallo studio dei dottori si posavano su quelli di Max. Nel breve tempo che s’incontravano, s’inviavano messaggi, si scambiavano vibrazioni, si raccontavano storie. Il loro, e lo si poteva leggere proprio nei loro occhi, era un desiderio inconfessato di volersi riincontrare altrove. Così era stato.
Ruth si era sposata due volte e due volte aveva divorziato. Aveva tre figli, due dal primo marito e l’ultimo dal secondo. All’inizio del loro rapporto si vedevano spesso. Lei lasciava i figli a sua madre e andava a trovarlo, godendosi delle ore di felicità insieme a lui. Trascorrevano interi weekend nella casa in cui Max si era trasferito in quell’ultimo tempo, a Kangaroo Ground. Adoravano fare lunghe passeggiate nei boschi, per la campagna, sulla spiaggia. Amavano la natura. Ogni tanto Ruth portava i figli con sé. Max se li era fatti amici. Scoprì che gli piacevano i bambini e a volte comprava loro dei regali. Ruth scoppiava di gioia quand’erano tutt’insieme felici e contenti.
Via via si era sviluppato fra loro un rapporto solido, ricco d’amore e di amicizia, e questo fino a quando Max non le confidò, l’unica persona con cui lo fece, del suo contratto. Lei, all’inizio, pensava scherzasse, poi capì, capì che Max non scherzava affatto, che parlava sul serio. Ma com’era possibile? Ma che idea!, pensava lei mentre lui continuava a parlarle di quel suo “coso”. Le spiegò infine quali erano i vincoli che lo legavano ad esso e che presto avrebbe dovuto pensare al suo matrimonio ideale, e questo, purtroppo, non gli avrebbe più permesso d’incontrare lei.
Ruth era rimasta scioccata, stordita, a bocca aperta. Un rapporto solido, ricco d’amore e di amicizia, il loro!, almeno così pensava lei fino a qualche secondo prima. Non era possibile. La realtà è fragile, la realtà non esiste, è tutto frutto della nostra immaginazione: quando tutto ti sembra unito e sicuro è il momento che ti accorgi che non lo è. Il suo caso. Il solito scherzetto della vita: ti senti soddisfatta e realizzata, ecco allora che arriva il disastro!
Il suo rapporto con lui sarebbe finito e perché?, e perché?, e perché? Perché Max le disse che vedeva il matrimonio come un viaggio a due su un’isola vergine, e che, se uno dei due ci fosse già stato, avrebbe rovinato l’idea stessa di questa favolosa avventura. Ruth non voleva credere alle sue orecchie. Si era messa a ridere sgangheratamente. Quell’uomo, di cui lei si era tanto invaghita, apparteneva al pianeta terra oppure veniva da un altro pianeta? Era una donna sincera, lei, e aveva un forte senso pratico e gioviale della vita e non riusciva a capire perché Max avesse voluto complicarsi in tal modo la sua. Oltre ad essere stata sposata due volte, aveva conosciuto altri uomini, però uno così strambo e nello stesso tempo così carino e buono come Max non l’aveva mai incontrato.
“E perché questo contratto?” gli chiese.
“Perché, quando l’ho escogitato, mesi fa, ero annoiato a morte di essere libero, di essere solo, di sentirmi una merda giorno dopo giorno. Navigavo su un mare senza porto. Mi vedevo marcire senza un perché, un asteroide vagante nello spazio. Volevo smettere questa mia nullità, volevo dare uno scopo alla vita, e il contratto che escogitai e firmai al mio trentunesimo compleanno, me lo dava. Tutto qui,” rispose lui.
“Tu sei fuori cervello. Qualcuno te l’ha risucchiato. La vita stessa, amico mio, ti ha dato uno scopo mettendoti al mondo. Noi siamo nati con uno scopo, Max, quello di vivere, perché allora vuoi trovarne un’altro? Perché non ti accontenti di quello che ti ha dato la natura?”
“Io la vedo diversamente.”
“Diversamente come?”
“A me non interessa come la natura ha sistemato le cose, non m’interessano i suoi ciechi scopi. M’interessa invece quello che io faccio di me stesso”.
“Per me tu sei matto da legare.”
“Può darsi”.
E fu proprio allora, che Ruth capì, capì veramente e definitivamente chi era Max: un bambinone contorto, dolce e bizzarro, dominato da idee strambe e per di più assurde e sciocche.
“Hai vinto tu,” finì per dirgli. “Believe me, non me la sarei mai aspettata una cosa del genere. Non si è mai preparati a tutto. In ogni caso, in questo business, io non ho nessuna chance, visto che hai cancellato le donne sposate dal tuo contratto, e io sono stata sposata, non una, ma due volte, dunque, a maggior ragione, sono fuori. E preferisco esserlo sin da ora. Ti lascerò ai tuoi giochetti.”
“I miei non sono ‘giochetti’,” fece lui risentito, “i miei sono impegni molto seri. La vita è una cosa seria, non un giochetto come la definisci tu.”
“Per te”, disse lei. “Per me, per quel poco che ci ho capito, il tuo è un giochetto, un giochetto pericoloso e infantile. Per vivere tu hai bisogno di scrivere e firmare un contratto, perché così ti pare di aver dato un senso, uno scopo alla tua vita; la mia invece la voglio libera, priva di impegni, eccetto quelli coi miei figli. Li ho voluti io, i miei figli, non gli uomini che ho sposato. Diversamente da te, io voglio essere libera, libera da ogni tipo di contratto, voglio solo vivere la mia realtà biologica, quella che il mio corpo di volta in volta mi suggerisce. È questo quello che voglio. E mi basta, non desidero altro.”
“A ognuno le sue esigenze e le sue idee,” fece lui e aggiunse, “se proprio vuoi che finiamo adesso la nostra relazione, va bene anche per me.”
“Ma come puoi parlare così, dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme?”
“Non lo so.”
Erano nel salone della casa di Kangaroo Ground, quando venne fuori questa faccenda del contratto. Max non si era mai sognato che Ruth reagisse in quel modo, addirittura di voler chiudere subito con lui. Non fece comunque nulla per dissuaderla. Il suo matrimonio ideale la escludeva.
Mentre lui era preso da questi pensieri, Ruth disse: “Ti propongo, visto che io sono ancora innamorata di te ( anch’io di te, pensò lui, ma non lo disse ), ti propongo di vederci solo come amici. E poi sai che i bambini ti sono molto affezionati e, allora, come posso dire loro, di punto in bianco, senza una ragione, perché la tua ragione loro non la capirebbero mai, come posso dire loro che mi hai lasciata? Come posso spiegargli questo, se fino ieri eravamo tutti insieme felici e contenti?”
“Come vuoi,” fece lui. “Vediamoci solo come amici.”
Più tardi, mentre ritornava a casa confusa e sconsolata, Ruth pensava che gli esseri umani non si conoscono mai abbastanza.
Il matrimonio ideale.
Liz
Liz fu la prima ragazza che Max incontrò. Sembrava avere tutte le carte in regola per poter essere colei con cui avrebbe potuto celebrare il suo sogno. Aveva dita affusolate e lunghe, chiome lisce e bionde, seni piccolini, ma perfetti per il suo corpo. Indossava mini-abiti, amava lo sci acquatico, le discoteche, il buon cibo e disprezzava tutto ciò che la faceva riflettere, sostenendo che meno si pensava, più si viveva.
Beh, ci sono delle ragazze che la vedono anche così, pensò lui, ma non lo disse.
L’aveva incontrata in un night e, all’inizio, tutto era andato liscio. D’altronde, agli inizi, i dolci inizi, c’è sempre molto da dire e da mangiare tra due innamorati, e loro non fecero eccezione.
Più tardi, quando cominciarono a sentirsi un po’ sazi per la grande quantità di cibo che si erano scambiati e avevano iniziato a conoscersi meglio, dovettero affrontare il loro vero ‘io’, un io già plasmato e radicato nelle sue vecchie abitudini e mappe mentali; un io che lasciava poco spazio all’ipocrisia.
Così, quando Max disse a Liz che avrebbe voluto figli se si fosse sposato; lei, pronta, rispose che non si sarebbe mai sognata di averne se mai si fosse sposata, perché i bambini erano una seccatura, perché era già troppo vecchia ( trentasette anni ) per una gravidanza, perché, se ne avesse avuti, si sarebbe infrollita più presto, perché qualcosa avrebbe potuto andare male durante il parto, perché preferiva farsi un viaggio in Europa piuttosto che spendere soldi e perdere tempo nell’allevare bambini e, soprattutto, perché bisognava riflettere molto su come allevarli e lei non voleva riflettere.
“Mi spiace, amico mio,” finì per dirgli, “ma io figli non ne voglio.”
La volta successiva s’incontrarono ad Albert Park, in un bar. Faceva bello, c’era il sole, si sedettero sulla terrazza. Ordinarono caffé. Max, dopo aver bevuto il suo, le disse, freddo e composto, che non aveva senso uscire ancora insieme, visto che lui voleva bambini e lei no, che lei aveva paura d’invecchiare e lui no, che lei amava lo sci acquatico, le discoteche e lui no, che lei era attratta dalle avventure sessuali passeggere e lui voleva fare sesso sì, però solo con la donna che avrebbe potuto diventare la compagna della sua vita, che a lui piaceva andare a camminare in campagna e a lei no, che a lui non dispiaceva riflettere sull’esistenza e lei no. Andavano d’accordo solo per quello che riguardava cibo e sesso crudo. Questo, secondo lui, non era sufficiente per dar vita a un rapporto duraturo e serio. Perciò, il vecchio buon senso gli diceva che c’erano ragioni sufficienti per porre fine alla loro relazione.
Liz l’aveva ascoltato con attenzione, sorpresa solo da quel suo modo antiquato di esprimersi, ma del resto per nulla rattristata dalle conclusioni a cui lui era arrivato.
Appena finito di parlare, si era alzata ed era andata via senza fiatar parola, lasciando il caffé lì sul tavolo dove l’aveva messo la cameriera e pensando che Max era un gran figlio di puttana.
È ora di far festa
Max, un’altra delle sue stranezze, era solito festeggiare ogni volta che concludeva in negativo una delle sue imprese. Questo, naturalmente, valeva anche per le sue avventure amorose. Gli piaceva chiudere porte e finestre, accendere tutte le luci, togliere la spina del telefono, farsi un bagno profumato, vestirsi elegantemente, prepararsi una cena particolare e, con champagne australiano, jazz e suonando il clarinetto, celebrare il suo fiasco.
La gente celebra quando vince e si rattrista quando perde. Max la pensava proprio all’opposto. Quando uno vince, non ha bisogno di festeggiare, è già sufficientemente gasato per aver vinto; invece, quando uno perde al gioco o esce sconfitto in un’impresa o deluso in un rapporto sentimentale o perdente in un affare o quel che sia, deve allora tirarsi su di morale, di spirito: ecco il momento giusto per festeggiare, proprio come faceva lui dopo ogni suo fiasco.
Così aveva fatto quella sera. Dopo aver rotto con Liz, la prima donna candidata al suo matrimonio ideale, si era vestito di tutto punto, aveva sprangato le porte, acceso tutte le luci in casa, tolto la spina del telefono e poi cibo, champagne australiano, jazz e clarinetto fino a quando era rimasto in piedi. Poi a letto, brillo sì, stanco sì, ma soddisfatto di se stesso, e il giorno dopo la vita avrebbe ripreso il suo corso come se nulla fosse successo, anche se atomicamente e psicologicamente non era così.
Nel prossimo post: parte terza