Il Contratto – racconto in 7 post: parte terza
Edith
Edith aveva una testa piccolina sotto un’enorme zazzera di capelli ricci e neri come la pece, portava stivali lunghi lucidi a tacco alto e una giacca elegante e attillata di pelliccia, anch’essa nera come la pece. Era il tipo di donna che faceva di tutto per non passare inosservata. Voleva essere sempre al centro dell’attenzione. Ci riusciva: bastava la sua bella zazzera e il suo modo sexy di vestire per mandare subito in ebollizione i maschi circostanti.
La prima sera che uscirono insieme, Edith volle essere invitata al ristorante. L’aveva scelto lei. Era un locale molto alla moda. Si era vestita tutta di nero. Solo le labbra, carnose, erano coperte da un rossetto rosso sgargiante. Era super truccata. Si era seduta solo dopo essersi fatta notare da tutti gli avventori e solo dopo aver scelto il tavolo più centrale. Max, per natura, era timido e riservato e se non fosse stato perché era particolarmente curioso in materia femminile, l’avrebbe piantata lì e se ne sarebbe andato via.
Mangiarono e bevvero senza tante parole, fortunatamente. Poi venne il conto. Max pagò e lasciarono il ristorante.
In quei tempi, a Melbourne, tirava un’aria di rilassatezza dei costumi, particolarmente in campo sessuale. Forse anche un’aria un po’ troppo rilassata. La moralità, la famiglia, la castità, ideali tanto cari dell’epoca vittoriana, erano stati messi fortemente in crisi in questa città. Ci si sentiva liberi di fare tutto ciò che si voleva. Addirittura si doveva, si voleva, la moda lo esigeva, provare tutto, anche l’omosessualità, anche la droga, anche l’LSD, anche les partouzes e se uno non le avesse provate, era come se non avesse la patente guida. Stili di vita estrema si incrociavano, si scambiavano modelli di comportamento, di licenziosità. La trasgressione, se condivisa, era la regola, la piece de resistance. Era trendy, ad esempio, che una donna senza mai avere incontrato prima un uomo, ma solo sentito al telefono, solo flirtato a voce e da lontano, lo invitasse a casa mentre lei si sarebbe fatta trovare a letto nuda, pronta per darsi a lui e poco importa se fosse stato bello, brutto, vecchio o psicopatico. Oppure che gli si facesse trovare le chiave di casa sotto lo zerbino mentre lei si faceva la doccia. Eccetera. Bastava solo essere convincenti, solo trasmettere quel pathos sentimentale, quella passione che avrebbe aperto il cuore e scatenato l’eros e il gioco era fatto. I posti dove incontrare nuovi compagni o compagne non mancavano. Ai barbecues dati ai bordi del Yarra River particolarmente il venerdì sera dopo il lavoro, a party combinati, nei night, club, feste comunali, sale da ballo; poi c’erano le Agenzie, matrimoniali e non, che organizzavano incontri per il weekend ad un numero pari di maschi e femmine; psicologi, psichiatri, guru di ogni tipo facevano a gara offrendo un numero limitato di maschi e femmine per trascorrere un certo tempo insieme, il tempo per conoscersi più da vicino! Insomma, c’era una libertà di agire e di vivere il sesso che avrebbe fatto rabbrividire anche il Marchese de Sade. Certo c’erano anche le eccezioni, ma erano rare. A Max non era ignoto tutto questo universo di incontri col sesso opposto. Quella sera, dopo il ristorante, era scontato che Edith sarebbe andata a casa sua. Così avvenne.
“Ma vivi proprio come un barbone puzzolente?” gli disse lei entrando in casa sua a Kangaroo Ground. “Sembra che non ci sia altro in questa baracca che disordine e sporcizia.”
Max non l’avrebbe mai chiamata così casa sua. Però, in parte era vero quello che aveva detto Edith. Raramente trovava il tempo per pulirla.
“Non esattamente,” fece lui, “c’è anche da bere, un giradischi e un gran letto.”
Edith lo guardò, fece un ghigno, una strizzatina di spalle e poi chiese dov’era il bagno.
Il suo corpo, disteso, nudo, non sul letto, ma sul sofà, sembrava, una volta privo del suo abbigliamento, spoglio di spirito, d’interesse, di vita. Non sexy, non attraente, un niente, un oggetto morto. Cosa le era successo? Non vi era rimasto segno di emozione, era diventato freddo e indifferente alla passione di Max.
Lui la toccava, accarezzava, baciava dappertutto, ma era come toccare, accarezzare, baciare un manichino. Si ostinava a scoprire qualche punto sensibile da cui avere qualche risposta, qualche segno di vita, di emozione, ma, ahimè!, il tutto continuava a non essere altro che un pallido mucchio di carne inerte. Starle vicino diveniva sempre meno eccitante, sempre meno piacevole. Ad un certo punto, aveva smesso di accarezzare il corpo di Edith e si era messo a guardarla, mentre lei, sempre fredda e distante, giaceva lì, di fianco a lui.
Ritornò all’attacco. Riprovò ancora e ancora a eccitarla, a provocarla, ma Edith, dal momento in cui si era sdraiata nuda sul sofà, era diventata una statua di ghiaccio.
Max, alla fine, non sapeva più cosa fare di quel corpo che l’aveva tanto eccitato. Come per magia, sentì, ad un certo momento, che non provava più la minima emozione per esso, e senza neppure averci fatto all’amore una sola volta!
“Cos’hai?” le chiese.
“Non l’hai ancora capito?” rispose lei. “In materia di donne devi essere proprio un innocente. Ma non lo vedi che sono frigida?” e nascose il viso nello schienale del sofà.
“Frigida?”
“Sì, frigida”.
“E perché non me l’hai detto prima?”
“Perché m’illudo sempre che prima o poi qualcuno riesca a invogliarmi, a rompere la mia frigidità”.
Tra il disappunto e la frustrazione, ormai dominanti nell’animo di Max, si venne ad aggiungere anche un feeling di pietà. Scattò comunque, prese i vestiti di Edith dalla sedia dove lei li aveva posati, glieli buttò addosso e poco dopo la riportò a casa sua.
Ritornando, gli tornarono alla memoria i versi di August von Platen:
Chi è mai stato capace di afferrare correttamente la
vita? Chi non ha mai dovuto sprecare la metà in sogni,
in febbrili attività, in conversazioni con dei folli,
in tortuoso amore, in un vuoto spreco di tempo? Sì,
anche l’uomo calmo e composto, nato conscio del suo
mandato e che da giovane ha dato un piano alla
sua esistenza, anche lui deve impallidire davanti
alle contraddizioni della vita.
Dorothy
Era un medico. Il suo lavoro la portava a vivere in uno stato di perenne ansietà. E perché? Perché aveva paura di non riuscire a compierlo correttamente. Le capitava a volte di dover lavorare la domenica. Quando questo avveniva, dato che era il solo medico del suo reparto, non essendo sicura delle diagnosi e dei farmaci che prescriveva, finiva sempre per essere esausta fisicamente e mentalmente e per di più di cattivo umore.
Una volta Max le aveva chiesto se le sarebbe dispiaciuto preparare una cenetta per un paio di amici. Aveva risposto che l’avrebbe fatto con piacere.
Max non aveva mai ricevuto tante chiamate da Dorothy. Gli chiedeva cosa avrebbe dovuto preparare per cena e per che ora, che bevande andavano servite e se avrebbero mangiato in cucina o in sala da pranzo. L’ultima telefonata la ricevette qualche ora prima di incontrarsi quel venerdì sera. Fu per dirgli che non aveva ancora preparato niente. Poi, improvvisamente, mentre era ancora al telefono, divenne isterica. Si era messa a dire che non sapeva cucinare, che i suoi genitori non gliel’avevano mai insegnato e, infine, era scoppiata a piangere.
“Tranquilla,” le disse lui, “hai fatto cose più importanti nella vita.”
“Vero,” fece lei rianimandosi. “Hai ragione, ho fatto cose importanti, io, nella mia vita, ma anche…,” e non disse altro.
Aveva trentadue anni e aveva già seppellito tre pazienti. Il primo un vecchio. Soffriva di asma e lei, mentre stava andando a visitarlo a casa sua, era finita in un ingorgo automobilistico ed era arrivata da lui giusto in tempo per vederlo morire. Alla seconda vittima, una donna ancora relativamente giovane, non aveva saputo diagnosticarle un tumore al seno. La sfortunata era morta poco dopo l’intervento. La terza vittima, il bambino d’una famiglia italiana. L’aveva in cura da tempo, però non era riuscita a guarirlo da una ‘febbre nera’, malattia molto rara, anche se avrebbe potuto curargliela, pensava lei.
La dottoressa Dorothy Brooms, per una ragione o per l’altra, si sentiva responsabile di queste tre morti: la sua coscienza se n’era fatta carico.
“È dura fare il medico!,” usava dire.
Quel venerdì sera, Max era andato in una rosticceria e aveva comprato un antipasto di carciofi sott’olio, olive ripiene, salame, un arrosto e delle verdure già pronte. A casa c’erano insalata, formaggio, pane, frutta, vino, caffé e tante altre cose. I suoi ospiti, Dorothy e lui, avevano ben mangiato e trascorso una piacevole serata. Solo lei, la dottoressa, la nuova fiamma di Max, durante quella cena non si era sentita del tutto a suo agio.
Si erano conosciuti ad un party. Uscivano insieme ormai da alcuni mesi. Dorothy, col tempo, aveva sviluppato un rapporto di amore-odio verso Max. Aborriva soprattutto di lui il suo modo di spadroneggiare nei suoi confronti, ma lo sopportava e lo sopportava perché aveva un debole per lui: trovava che aveva tutto quello che mancava a lei: un forte senso di volere tutto dalla vita. A lui invece lei piaceva, ma non riusciva ad amarla.
Una volta erano andati in un ristorante greco con alcuni dottori, colleghi di lei. Erano sei in tutto e Max era l’unico a non essere medico. All’inizio la conversazione era saltuaria. Poi era caduta sull’eccentricità di questo o di quel primario, sulla brutta condizione di quelli che avevano malattie terminali, sulle difficoltà di disciplinare gli infermieri. Poi il discorso era passato ai colleghi più vicini e infine a loro stessi.
Ma perché poi, Max e Dorothy, stando le cose così ingarbugliate e insicure fra loro, e questo lo sapevano tutt’e due, perché continuavano ad uscire insieme? E comunque, non tanto lei quanto lui, il cui tempo per trovarsi la donna ideale era quello che era, per non dire contato, perché continuava a stare con lei? I motivi, i gusti, le incomprensioni, come si dice a volte, non si discutono. Malgrado la dottoressa avesse un corpo legnoso, magro, fosse pallida, malinconica, gracile, incerta e avesse l’herpes vaginale, lui la trovava affascinante, irresistibile. E perché? Non lo sapeva. Gli piaceva e basta e questo anche se non riusciva ad amarla.
I dottori, infine, volevano parlare di cose allegre quella sera a cena e cosa c’era di più allegro del sesso? Tutti intervennero con piacere. Anche Dorothy, che sembrava disprezzare il sesso, almeno secondo l’impressione che Max si era fatta di lei, ne parlava animatamente. Incredibile, la loro morbosa immaginazione portava quei personaggi ad anatomizzare sessualmente uomini e donne al tavolo in cui stavano mangiando. Max, sentendoli parlare in quel modo, pensò che l’ospedale in cui lavoravano non sembrava più un luogo per curare ammalati, ma un luogo per fare sesso. Non l’avrebbe mai pensato.
Quella sera, mentre ritornavano a casa, aveva detto a Dorothy che i suoi colleghi erano ossessionati dal sesso. Lei ignorò il suo commento; lui non aprì più bocca. Una volta arrivati a casa, fu lei ad aprire bocca per lui. Disse che era inutile continuare a vedersi, era soltanto una perdita di tempo e di energia per entrambi. Dovevano cercare d’impiegarlo meglio, il loro tempo, loro, e si dissero addio quella stessa sera.
Nel prossimo post: parte quarta