Il costo – terza parte: un bambino del sud Italia (3)

Oggi ho tre diplomi, due universitari e uno collegiale ottenuti uno in Australia, allo Holmes College di Melbourne, uno in Spagna, a la Universidad Complutense de Madrid, e uno in Italia, all’Università per Stranieri di Perugia. Non ho la minima idea di quel che valgono. Forse niente, forse sono solo dei pezzi di carta e nulla più. Non sono però mai stato interessato ai titoli di studio. Quando mi sottoponevo a degli esami, la sfida era sempre con me stesso. Non erano i diplomi che cercavo, cercavo la conoscenza; non era per i professori che mi lambiccavo il cervello, ma per saziare il mio appetito di scienza. Volevo capire il mondo, desideravo conoscere lingue, popoli, la vita, tutto. Il mio motto era ed è rimasto: non so, quindi soffro.

In ogni modo, e senza volere offendere le fabbriche dell’istruzione e del sapere, io mi considero un autodidatta. Gli scrittori, i personaggi, gli uomini che più mi hanno trasformato, formato, aperto gli occhi e rivoluzionato la mia esistenza, non li ho incontrati nelle scuole, nelle università, ma nella vita e nella lettura. I libri che ho letto e le esperienze che ho fatto sono stati i miei maestri, i miei significati, la mia luce.

I diplomi ottenuti, però, anche se non valgono nulla, li ho pagati cari. Anzi, carissimi. Prima di ottenerli ho dovuto superare prove, fare sacrifici, piegarmi ai bisogni, ai soprusi. Mi sono sottoposto a ristrettezze economiche al limite della sopravvivenza, per non parlare di tutta quella gamma di lavori umilianti, penosi, duri e pericolosi che ho fatto, lavori che mi abbrutivano, mi alienavano, mi portavano via ogni briciola di energia, mi rendevano una merce mediocre, comune e di poco costo.

Rammento, e non senza un brivido, quando a Parigi ho tirato giù un muro alto vecchio e traballante tra due edifici abitati. Era rimasto lì dopo la costruzione dei due palazzi e chissà per quale ragione. Era pericoloso e poteva crollare in qualsiasi momento, mettendo a rischio la vita degli abitanti e danneggiando seriamente gli appartamenti al pian terreno. L’impresa che gestiva il lavoro non aveva trovato nessuno che se la sentisse di demolirlo: troppo rischioso. L’ho fatto io.

In Australia, nel Victoria, ho trascorso due settimane da solo in un posto isolato, arido, infuocato dal sole e infestato dai serpenti per scavare con pala e piccone le fondamenta di alcuni silos. Ricordo che, a volte, quando alzavo il piccone e lo portavo a piombo sulla testa, per qualche istante lo tenevo così, alzato e in equilibrio e, contemporaneamente, sollevavo lo sguardo verso il cielo che si apriva sopra di me in tutta la sua immensità. Quella vista mi faceva pensare a un milione di cose e, particolarmente, a quant’ero buffo, ridicolo e grande. Io, un atomo dell’universo, lì con quel piccone in mano, coperto di sudore e bruciato dal sole, a sbirciare quella sconfinata meraviglia tra una picconata e l’altra. Allora mi veniva da ridere e sghignazzavo forte e sgangheratamente in quelle pianure sperdute e vaste. Poi quel riso si trasformava in riflessione, una riflessione lunga, solitaria, senza risposta.

Facevo questi lavori pesanti e pericolosi perché prendevo qualche lira in più. A volte, in due o tre settimane, facevo più soldi di quanti ne avrei fatti lavorando in una fabbrica per mesi. Questo mi permetteva di pagarmi gli studi, di prendere lezioni private, oltre a concedermi di assentarmi dal lavoro tutte le volte che avevo esami importanti da preparare.

Quando mi sono guadagnato il posto di guida turistica alla Paris Vision di Parigi, mi era sembrato irreale, un sogno, non riuscivo a crederci. Come avevo fatto, io, un pastorello semi-analfabeta e morto di fame della Calabria, ad arrivare fin lì? Come come come? Non lo sapevo, ma ci ero arrivato.

Quella sera, dopo la notizia, dopo quella favolosa notizia, tornai a casa con un cuore difficilmente controllabile tanto era euforico. Avrei voluto tanto, ma proprio tanto, in quella occasione, poter condividere quel mio stato d’animo, quel momento così decisivo e bello della mia vita, con qualcuno, qualcuno che mi fosse vicino, ma non conoscevo nessuno. Ero solo anche se conoscevo gente. Appena chiusa la porta dietro di me, mi sono buttato sul letto con il viso premuto contro il cuscino e ho pianto, pianto, pianto, mai prima avevo fatto un pianto così importante, bello e significativo.

Da allora, la qualità della mia vita è cambiata radicalmente, definitivamente, sostanzialmente; da allora la mia vita è diventata, non merce mediocre al servizio di quelli che non ne hanno mai abbastanza, ma è diventata la mia vita, la mia proprietà, il mio senso!

Nel prossimo post: il sogno

 

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