Il Paese delle meraviglie (5)
Posted in Il Bel Paese, Il Paese delle meraviglie, Il Testamento By Francis Sgambelluri On Giugno 1, 2012L’esodo meraviglioso
Questo si verificò, Rossi, in particolar modo, tra il 1876 e la fine degli anni venti. Durante questo periodo, circa 27 milioni di italiani lasciarono il paese, si staccarono dalla roccia come le cozze, avrebbe detto Verga, per andare in cerca di pane in giro per il mondo. Questa era l’unica via di scampo se volevano sopravvivere, scappare dall’inferno della fame in cui vivevano e cercare cibo altrove.
I fatti di Aigues Mortes del 1893
Alessandro Allemano riporta, su Internet, un episodio degli emigranti del Pdm in Francia. Scrive: “Erano gli anni duri di fine Ottocento. La situazione di vita nelle campagne si stava facendo sempre più precaria; per le famiglie numerose, costrette per lo più ai contratti di schiavanza, l’esubero di manodopera e la contemporanea presenza di persone da sfamare in qualche modo non permetteva sostanziali vie di scampo che non fossero quelle del trasferimento da un paese all’altro come avventizi o “servi di campagna” a contratto dai particolari più ricchi.
“Era la Francia ad essere méta privilegiata di questi emigranti, molti dei quali partivano proprio dal Piemonte, dal Monferrato.
“Tanti, dopo aver passato il confine ed essersi trovati in un Paese straniero, incapaci di capirne l’idioma e di salvaguardare i propri interessi, dovevano essere rimpatriati forzatamente, ricorrendo alle autorità consolari.
“Italiani nelle saline francesi.
“Ad Aigues Mortes, cittadina di 4000 anime, nel dipartimento di Gard nella Francia meridionale, sulle Bocche del Rodano a 25 chilometri da Nîmes e da Montpellier, si trovava stanziata una nutrita colonia di operai italiani che avevano trovato occupazione nelle vicine saline di Perrier e Peccais; i nostri connazionali erano preferiti ai colleghi francesi perché meno sindacalizzati e disposti ad accettare paghe inferiori pur di poter lavorare. Il lavoro in salina era duro, scarsamente remunerato, e si svolgeva in un ambiente paludoso, dove sempre erano in agguato le febbri malariche. “Tutti questi operai lavoravano in condizioni penose, esposti tutto il giorno a un sole ardente, con gli occhi bruciati dal bagliore accecante dei cristalli di sale che scintillavano al sole, senza altra ombra dove riposare gli occhi che non fosse quella del cappello a larghe falde, coi corpi che gocciolavano di sudore, coperti di graffiature, scorticati dal canestro di vimini, mal protetti da una tela di sacco gettata sulla spalla, con le mani tagliate dai cristalli di sale, calzando zoccoli di legno guarniti di paglia”.
“Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex-galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani e 150 francesi, anche se di questi ultimi se ne erano presentati 800: gli italiani, come ripeto, pur di lavorare avevano accettato una paga sensibilmente inferiore (circa i due terzi) rispetto ai francesi.
“Questa è stata la causa della sanguinosa battaglia che era scoppiata tra francesi e italiani…
“Il giorno successivo (all’evento) alcuni operai italiani, volendo vendicare il compagno offeso, avrebbero organizzato una spedizione punitiva ai danni dei francesi, provocando, secondo il “Times” di Londra, due morti e alcuni feriti. Più probabilmente però si trattò di un’assurda menzogna, propagata ad arte dalle autorità francesi desiderose di offrire alla folla un pretesto qualsiasi per esacerbare gli animi.
“La mattina di giovedì 17 agosto oltre 500 francesi inferociti attaccarono i capanni che ospitavano circa 100 italiani: da quel momento ebbe inizio una colossale caccia all’italiano, che devastò la cittadina di Aigues Mortes e i suoi sobborghi. Al grido di “A morte gli italiani! Viva l’anarchia! Viva la Francia e morte all’Italia! Fuori gli orsi italiani!”, la folla, armata di pietre, bastoni e forconi diede l’assalto agli improvvisati rifugi dei nostri connazionali, scoperchiando il tetto e devastando ogni cosa. Un operaio che si trovava coricato febbricitante venne massacrato a colpi di mattoni.
“Molti connazionali, vistisi spacciati, tentarono il tutto per tutto, gettandosi negli stagni salmastri o fingendosi morti: alcuni fortunati sarebbero riusciti ad attraversare gli stagni e a raggiungere Marsiglia a piedi dopo una marcia estenuante.
“Una ventina di piemontesi, gettatisi nella melma dell’”Etang des Pesquieres”, vi rimasero imprigionati e bersagliati dalle pietre che i francesi lanciavano dagli argini: moriranno tutti, ad eccezione di un tale Antonio Cappellini, che riparerà anch’egli a Marsiglia.
“La furiosa caccia all’italiano durò due giorni. Non sarà possibile stilare un esatto bilancio delle vittime, poichè molti corpi senza vita -e qualcuno ancora in vita- furono gettati senza pietà nelle paludi e mai più ritrovati.
“Il numero dei morti può andare da un minimo -improbabile- di 7 o 9 (secondo la stampa francese) fino a 50 o più (secondo il “Times” di Londra): altre fonti parleranno addirittura di un centinaio di vittime, oltre ad un centinaio di feriti.
“Né va dimenticata l’assai scarsa umanità dimostrata dagli ospedali locali, che per ben otto ore si erano rifiutati di accogliere e curare i feriti.
“Raminghi per il Monferrato.
“I superstiti delle violenze di Aigues Mortes, circondati dall’odio della popolazione locale, ormai considerati e trattati come pericolosi criminali, furono avviati alla frontiera di Ventimiglia e rimpatriati. Alcuni di essi, passando da Asti, giunsero anche in Monferrato, dove, sfiniti dal viaggio e privi di ogni mezzo, si adattarono a chiedere la carità alle parrocchie e ai municipi”.
Il biglietto costava,
fine Ottocento inizio Novecento, intorno ai dieci dollari per imbarcarsi ed emigrare in America. Dopo una traversata di tre settimane d’inferno, si arrivava in America sempre ai limiti della sopravvivenza su quelle carrette marine cariche di bestiame umano, dove i naufragi, i suicidi, le malattie, la morte erano all’ordine del giorno.
Una volta arrivati in America, la terra sognata, non iniziava il bello, ma il brutto: chi era analfabeta, aveva infezioni e altri problemi fisici se ne ritornava a casa, volente o nolente. I fortunati, invece, quelli che venivano accettati dalle autorità, cominciavano, qui e lì sul grande continente, il loro calvario, non meno duro di quello degli schiavi che arrivavano dall’Africa sulle coste americane fino a non molto tempo prima. Il bestiame meraviglioso era mano d’opera a bassissimo costo. Ad esso spettava il lavoro più pesante, pericoloso, disgustoso, servile, doloroso, umiliante.
Il lupo perde il pelo non il vizio. Schiavi e discriminati erano i neri; schiavi e discriminati i meravigliosi. Per gli americani non c’era differenza tra loro.
Si racconta che, all’inizio degli anni venti, un nero aveva fatto all’amore con una donna che apparteneva al Pdm e, dato che ai neri era proibito copulare con le donne bianche, era stato arrestato. In tribunale si era difeso e aveva vinto la causa sostenendo che non poteva essere condannato perché la meravigliosa con cui si era accoppiato non apparteneva alla razza bianca, ma a quella nera!
In quel meraviglioso continente, i meravigliosi erano i più linciati dopo i neri… Nick e Bart ossia Sacco e Vanzetti, due rappresentanti della fratellanza umana, erano stati giustiziati barbaramente e senza un reale “perché”.
La povertà, la disperazione, l’umiliazione, la discriminazione, la nostalgia, l’incomprensione culturale e linguistica, l’alienazione, il risentimento, il senso d’inferiorità calpestavano il pensiero e l’anima dei nostri connazionali sul suolo americano. Molti di essi non resistevano a questo calvario giornaliero e, come risultato, si toglievano la vita o ritornavano a morire nella zolla natale.
Il contratto capestro di Marcinelle
Non so quanti anni hai, Rossi, ma io ne ho abbastanza per ricordare quell’otto agosto del 1956. Ero ancora un ragazzo. Ricordo comunque tutto. Ricordo la signora Giuseppina che, non appena sentita la notizia, si era messa subito a urlare a più non posso e a strapparsi i capelli in mezzo alla strada: qualcuno le aveva comunicato che suo marito era rimasto seppellito in una miniera in Belgio. Non solo lui. Altri duecentosessantanove minatori appartenenti al Pdm avevano fatto la sua stessa fine. Lì, intrappolati come topi, a centinaia di metri di profondità; lì, in quei buchi e cunicoli, a morire con la bocca piena, non di pane, ma di terra e carbone!
I lavoratori meravigliosi dovevano firmare un contratto di 5 anni per andare a lavorare nella miniera assassina di Marcinelle. Venivano trasportati lì in treni bestiame, come quelli che i nazisti usavano per trasportare gli ebrei, i prigionieri di guerra. Una volta in Belgio venivano disinfettati come se fossero stati pieni di pidocchi e di altri parassiti e poi accolti in un campo di concentramento della Seconda Guerra Mondiale. Dopo qualche settimana di lavoro, cioè dopo che i lavoratori avevano provato la durezza e il pericolo di quel posto d’inferno dov’erano finiti, anche se avessero deciso di ritornare nel loro paese, non avrebbero potuto. Perché non avrebbero potuto? Perché il “contratto capestro” che avevano firmato, stipulato a tavolino dai degnissimi governanti dei due illustri paesi, li obbligava a lavorare nella miniera assassina per i 5 anni stabiliti. Quelli che non rispettavano il maledetto contratto che avevano innocentemente e per necessità di sopravvivenza firmato con una croce o qualche altro scarabocchio, venivano incarcerati presso le petit chateau dove molti di loro marcivano, morivano di fame, di umiliazione, di crepacuore.
Ma la cosa più vergognosa di tutta questa vicenda è che lo Stato predatore del Pdm vendeva, dico “vendeva!”, allo Stato predatore belga, per soli due quintali di carbone, la vita di un lavoratore meraviglioso! Scambio di vite umane in cambio di materia prima. Duecentosessantanove vite umane per soli 540 quintali di carbone! Ecco a cosa serve il popolo agli Stati predatori!
E così, quel giorno, quel lontano giorno di agosto del 1956, la signora Giuseppina urlava a più non posso e si strappava i capelli in mezzo alla strada, perché in quel luogo straniero e della malora, suo marito, il padre dei suoi cinque figli, l’unico che dava loro da mangiare, da vivere, da sperare, era rimasto seppellito sotto migliaia di tonnellate di terra e carbone.
Ma perché, poi,
è sempre lui a emigrare in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Canada, in Inghilterra, in Australia, nella Nuova Zelanda, in Africa, in Argentina, in Brasile, in tutta l’America del Sud e in mille altri paesi del mondo e non quelli, guarda caso, che lo governano?