Il probo – sesta parte: un bambino del sud Italia (6)
Mi è capitato anche, e più d’una volta, di rifiutare la fortuna, ovvero una certa agiatezza economica. Solo tre esempi. Il primo è stato con la Paris vision. Il proprietario, il signor Georges, se ricordo bene il suo nome, voleva farmi fare carriera nell’azienda. Sarei potuto diventare, con un po’ di buona volontà e le lingue che conoscevo, un ottimo organizzatore della Paris Vision e guadagnare dei bei quattrini. Ho rifiutato. Il secondo è stato in Australia e più precisamente alla European School of Languages. I genitori di Rebecca G. (la cui madre, la signora G., per conoscermi, aveva seguito per due anni un mio corso di francese, anche se, il francese, lei lo conosceva meglio di me) mi volevano far sposare la loro unica figlia, offrendomi, se avessi accettato, una villa e mezzo milione di dollari. Ovvio, Rebecca, che insegnava inglese nella mia scuola, era innamorata di me, ma io, purtroppo, non ero innamorato di lei. Ho rifiutato. Il terzo esempio è avvenuto sempre nella mia scuola. Mi era capitato, così, per istinto, di fare il tirchio, cosa, questa, che non aveva mai fatto parte prima del mio stile di vita, e questo succedeva soprattutto quando i quattrini entravano nelle mie tasche con facilità. In quei momenti sentivo il brivido dell’avidità, il richiamo del denaro che reclamava altro denaro. Non volevo più spendere, volevo solo risparmiare, ammucchiare, mettere i soldi in banca. Ero arrivato al punto di negarmi persino l’acquisto d’un libro che avrei tanto desiderato! Insomma, non mi riconoscevo più. L’ho venduta mettendo fine alla tentazione di diventare un altro seguace del dio dell’egoismo.
Non so come dirlo. In quei tempi, per me, tutto era facile e naturale. Filava così. Mi veniva spontaneo prendere certe decisioni e rifiutare quello che non mi andava. Sentivo che dovevo seguire il mio senso interiore di libertà, di realizzazione, che per me voleva dire tanto; sentivo che avevo bisogno del mio equilibrio e che, per conservarmelo, dovevo essere prima giusto e onesto con me stesso ancora prima che con gli altri. Ci riuscivo. Non era difficile. Avevo preso l’abitudine di guardarmi allo specchio e volevo vederci la mia anima pulita, senza macchie. Era la mia linfa, luce, forza, quella che mi faceva camminare come mia madre: a spalle dritte e testa in alto. Non compromessi dunque, né falsità o ipocrisie.
Non è stato un lusso conquistato senza costi. La prima battaglia l’ho combattuta, infatti, proprio con me stesso. Ero io che dovevo mettere ordine nel mio io, io il soggetto-oggetto da educare e capire. Tra le pulsioni e la ragione c’è sempre lotta e questa lotta ho dovuto affrontarla in prima persona fin dalla più tenera età, da quando ho deciso, prima nella mia mente e poi nella realtà, di lasciare casa e famiglia. La battaglia con me stesso è stata lunga e non facile. In seguito, via via che si vedevano certi risultati, quando infine ero riuscito ad esercitare un certo controllo su me stesso, il resto è stato facile: la società, come guadagnarmi da vivere, lo studio, erano nemici docili in confronto, meno impegnativi e più arrendevoli.
Quanto al mio lavoro, devo dire che, prima di essere impiegato alla Paris Vision, ho fatto così tanti lavori che, alla fine, ne ho perso il conto. Però, da quando ho incominciato a lavorare come guida turistica, i lavori che ho fatto – interprete, traduttore, insegnante, scrittore – avevano cessato di essere lavori, almeno per me. Erano divertimento, una gioia, un piacevole esercizio della mente, un continuo arricchirmi di cultura e di cose interessanti e belle. Nell’insegnamento, poi, sono sicuro, imparavo più io dei miei studenti. In breve, queste occupazioni erano una vacanza più che un lavoro. Se avessi avuto i soldi, sono convinto che sarei stato io a pagare pur di poterli fare. Detto tutto in una volta, da quando ho iniziato a lavorare per la Paris Vision, la mia vita non è stata altro che una vacanza, una vacanza che dura ancora oggi.
Nel prossimo e ultimo post: il crepuscolo