Il sogno – quarta parte: un bambino del sud Italia (4)
A Melbourne, all’inizio degli anni settanta, ho cominciato a dare lezioni di francese e d’italiano a piccoli gruppi di studenti delle scuole private – International School of languages, Holmes language school, Berlitz language school. Non avevo, come avrei voluto avere, una conoscenza accademica e profonda di queste lingue, comunque, quella che avevo, bastava e avanzava per i miei corsi.
Qualche anno dopo, con l’aiuto economico d’un amico e restando fedele ad un mio principio, se gli altri ci riescono, perché non dovrei riuscirci anch’io?, ho aperto, nel centro della città, una scuola di lingue: European School of Languages.
Non me lo sarei mai aspettato, non a quel punto in ogni modo. Roba da non credere. Un successo strabiliante. Nel giro di qualche anno, alla European School of Languages insegnavano part-time circa venticinque professori di madre lingua e le aule venivano utilizzate tutte al massimo. Fantastico!
È stato allora, proprio in quel periodo fantastico della mia vita che, mentre scrivevo qualcosa sulla lavagna, tutto d’un colpo sono finito per terra privo di sensi. Malgrado il panico e lo sgomento, alcuni dei miei studenti mi portarono subito all’ospedale di South Melbourne. Non so cosa mi abbiano fatto lì, so solo che mi sono ripreso dopo alcune ore. Cosa mi era successo? Non si sapeva. Ero svenuto e basta. Mi hanno chiesto s’era stata quella la prima volta. No, ho risposto. C’era stato un precedente. La stessa e medesima cosa mi era successa in Francia tanti anni prima.
La mia dottoressa, la dottoressa Joan Fraser, un’amica, disse che dovevo sottopormi ad una serie di esami. Così ho fatto. Sono andato in una clinica dove, in una sola giornata, mi hanno fatto un’infinità di test. Non erano riusciti a diagnosticare nulla di particolare. C’era però qualcosa nel mio sangue che non si capiva cos’era e per capirlo dovevano farmi altre analisi. E così, per una quindicina di giorni, andavo avanti e indietro dalla clinica per fare le analisi del sangue. Alla fine erano riusciti a capire che avevo la talassemia ossia il morbo di Cooley. Non si sapeva però se era quella maggiore o minore. Con la prima, la talassemia maggiore, mi sarebbe rimasto poco da vivere. Meraviglioso!
Ricordo che, un pomeriggio, mentre mi recavo dal dottore, in un negozio di prodotti continentali, comprai un’intera forma di camembert e una bottiglia di beaujolais che, uscendo, dopo un morso e un sorso, finirono inspiegabilmente nel cestino dell’immondizia. Poi salii in macchina e partii come un razzo, incurante del pericolo. L’idea della morte mi elettrizzava, mi faceva fare delle cose bizzarre, assurde.
Non riuscivo a darmi pace. Più pensavo a tutta quella cosa, più tutta quella cosa mi diventava indigesta. Era l’ironia della sorte, la beffa, il cinismo. L’imprevedibile era sempre in agguato. Avevo lavorato così tanto per raggiungere quella piccola soddisfazione, realizzazione. E ora? E non solo. Volevo fare ancora tante cose, soprattutto scrivere. Nonostante avessi l’impressione di aver vissuto per tanto tempo, nonostante ciò, mi pareva di aver appena iniziato a vivere. E ora? non smettevo di chiedermi. Ero arrabbiato in quei giorni, arrabbiato e basta.
Poi avevano smesso di cavarmi sangue e, una sera, la mia dottoressa mi comunicò, circa un mese dopo che ero svenuto, un mese dopo lo svenimento, che la mia talassemia era minore. Dovevo solo evitare di avere figli con una donna che aveva la mia stessa malattia del sangue. “Bene!”, avevo esclamato, sentendomi d’un momento all’altro invadere dalla gioia.
Le cose, da lì a poco, ritornarono di nuovo normali. Ho ripreso, e ancora con più entusiasmo, la scuola in mano. L’ho gestita per diversi anni. Lavoro piacevolissimo, anche se impegnativo e delicato. Impegnativo, perché prendeva tutto il mio tempo, tutta la mia vita; delicato, perché nonostante la cultura dominante fosse quella australiana, dovevo anche fare i conti con la provenienza di ognuno degli insegnanti. Non ho avuto mai problemi con nessuno di loro. Tra la gente che frequentava la scuola soffiava un vento di rispetto, di understanding e un buon feeling.
La European School of Languages è stata per me una palestra sociale, culturale, intellettuale, un paradiso di lingue e di tradizioni internazionali. Ho imparato moltissimo, tanto dagli insegnanti che lavoravano lì, quanto dagli studenti che la frequentavano. Devo molto a quest’esperienza, a questo sogno che il luogo dov’ero mi ha permesso di realizzare.
Poi, verso la fine degli anni Settanta, non volendo più continuare un lavoro bello, sì, interessante, redditizio, tutto quello che si vuole, ma che comunque si prendeva tutto il mio tempo rendendomi suo schiavo e, per di più, mi stava trasformando in uno spilorcio, ho deciso di vendere la scuola e di lasciare l’Australia.
Ritornato nel vecchio Continente, grazie ai guadagni ottenuti con la European School of Languages, grazie all’entusiasmo che continuavo a nutrire per la conoscenza in generale e per l’arte, le lingue e la filosofia in particolare, ho potuto dedicarmi per alcuni anni unicamente allo studio, seguendo, a mio piacere e discrezione, conferenze, convegni, seminari e corsi in diverse scuole e università.
In Danimarca, oltre a studiare il danese, ho insegnato anche francese e spagnolo alla H-O-F (Hovedstadens Oplysnings Forbund) Undervisning di Copenhagen. Ero affascinato dai vichinghi che arrivavano in classe con gli abiti coperti di neve e prendevano posto in silenzio, con grazia, senza far rumore. Il loro modo di fare mi sconvolgeva, e mi sconvolgeva perché non riuscivo a far collimare questa loro attuale raffinatezza coi vichinghi bruti e ammazza tutti, che spesso ci fanno vedere nei film. Erano molto attenti e cercavano di non perdersi una lezione. Parlavano diverse lingue e non rifiutavano mai una bella risata. I Danesi: gente unica e straordinaria!
Le cose sono cambiate definitivamente verso la metà degli anni Ottanta, quando sono venuto a trovare un amico italo-australiano che si era trasferito in Italia, nel Biellese, con la famiglia. Mentre ero da lui, ho saputo della svalutazione del dollaro australiano. Questo da milleseicentocinquanta lire era sceso a mille. Avevo perso quasi la metà dei miei soldi, dei miei risparmi. Ho telefonato subito al mio avvocato e amico, Denis Dalton, a cui avevo delegato la mia piccola fortuna prima di lasciare Melbourne. Denis mi aveva cercato per informarmi della cattiva situazione monetaria australiana, ma non era riuscito a trovarmi (e come poteva se non avevo un indirizzo fisso e tanto meno un telefono?). Ha detto che gli dispiaceva, che dovevo decidere al più presto cosa volevo fare col resto dei miei risparmi: investirli in una piccola proprietà lì in Australia oppure farmeli mandare dov’ero, perché il dollaro sarebbe ancora sceso. Mi sono fatto inviare a Biella quanto era rimasto.
Tony e Mary, gli amici che mi ospitavano, mi avevano suggerito, prima di muovermi di nuovo, di restare per un pò da loro e di cercare, nel frattempo, di dare lezioni d’inglese per occupare il tempo. Così ho fatto e così ho anche scoperto che avrei potuto fare quello che da tempo desideravo fare: dedicare il mattino alla scrittura e il pomeriggio all’insegnamento. Mi sono stabilito a Biella.
Nel prossimo post: l’incubo