Il treno Milano-Torino: una latrina mobile
È sabato 3 settembre. Ore 17 e 11. Sei alla stazione centrale di Milano. Il tuo treno parte alle 17 e 13. Hai due minuti di tempo per prenderlo e sei a cento metri da esso. Corri col bagaglio in mano. Quando arrivi al treno, pensi di avercela fatta. Provi ad aprire la porta. Non si apre. Ti accorgi che la carrozza è chiusa. Corri alla prossima. Lo è anche questa. Allora ti precipiti verso la terza. Diamine! Pure questa è chiusa. Ti mancano ormai le forze. Il capo stazione sta per fischiare. Ancora uno sforzo. Su, dài! Corri. La porta della quarta carrozza è aperta, grazie a Bogududù! Sali. Il treno parte.
Fa un caldo bestiale, afoso, soffocante, insopportabile. Sei pieno di sudore. Hai il respiro corto, ma sei contento di avercela fatta. La carrozza è zeppa della solita fauna. Vorresti sederti. Non trovi posto. La gente inizia a spostarsi. Va in cerca di una carrozza meno affollata. Qualcuno si alza. Ti precipiti. Riesci. Ti siedi. Tiri fuori dalla tua sacca una bottiglietta con l’ultimo goccio d’acqua. Te lo butti addosso. Quel liquido sul corpo ti fa sentire un po’ meglio. Respiri anche meglio. Ma sei ancora tremante ed esausto dalla corsa. Il corridoio è ancora zeppo, i posti tutti occupati. Stai male comunque. Speri in un miglioramento. Prendi dalla borsa un block-note e lo usi come ventaglio. Ottima idea. Ti aiuta. Senti che le energie ritornano.
Occupi un posto vicino al corridoio e siedi nel verso in cui va il treno. Davanti a te, sulla fila di sinistra siede una ragazza cicciottella. Tiene un librone di scuola aperto sulle gambe, ma non legge, parla al telefonino. Sulla tua destra c’è una signora sulla cinquantina e di fronte a lei un signore. Parlano. I tuoi occhi si spostano sui vetri della finestra vicino a loro. Sono incredibilmente sporchi. I sedili sono vecchi, sozzi, consunti. Il corridoio? Sporco anch’esso. Tutto questo ti deprime. Senti il bisogno di andare in bagno. Hai un’ora e più di viaggio. Non ce la farai mai ad arrivare a casa. Ti fai coraggio. Lasci tutto lì e vai in cerca d’un bagno. Lo trovi. È occupato. Aspetti. Si libera. Entri. Per poco non svieni. Cosa fare? Ti fai coraggio. Ti otturi il naso quanto puoi. Ti adegui. Sganci. Finisci. Hai sporcato le scarpe. Era inevitabile!
Ritorni al tuo posto. Segui uno spezzone di conversazione della signora e del signore seduti vicino a te. Lui dice che bisognerebbe metterli tutti in una gabbia, buttargli addosso del petrolio e poi appiccare il fuoco. In seguito fa il nome d’un individuo squallido che più squallido non si può. Volevi conoscere il suo nome, ma ti è sfuggito. Incominciava con la “c” e la “a”. “Costui non è degno neppure di essere affogato nell’immondizia,” finì per dire l’uomo. “Sì, ribatté lei, “ma poi, chi metteremmo al suo posto?” “Siamo messi così male?” fa l’altro. “La verità è che sono uno peggiore dell’altro,” disse lei. Niente. Conosci. Ti basta così. Non vuoi più seguire il loro discorso. Non ti interessa. Vorresti cambiare addirittura posto per non sentirli. Ma non hai la forza per farlo e non c’è un altro posto dove sederti. Sposti la mente altrove. Pensi.
Ti vengono in mente i treni pieni di ebrei, zingari e altri; ti vengono in mente i treni africani, indiani; non puoi evitare di pensare ai treni che trasportano bestiame e ti chiedi: erano/sono anch’essi così sudici? È tollerabile un tale scempio in un paese europeo? E poi nel Bel Paese, il paese delle meraviglie? Non ce la fai più. Scoppi. Vedi, senti, pensi, pensi che il treno su cui stai viaggiando è una latrina che si muove sui binari. Lo sporco è ovunque: sui sedili, per terra, sui vetri, nell’aria putrida che circola nei corridoi. Il gabinetto, dove hai appena fatto esperienza, è inavvicinabile, solo merda e piscio. Vagoni così squallidi è difficile trovarne altrove, neppure nei paesi del Quinto Mondo.
La stizza, e te l’hanno scatenata i tuoi vicini, non è finita. Sei alla sua mercè, alla mercè della stizza. Sai che le parole sono inutili. Conosci i parassiti che ti governano meglio di loro. Allora pensi a bombe, a fucili, ad armi. Gli unici che cambierebbero questo schifo. Cosa fare? Come risolvere certi insulti? Il popolo lavoratore, colui senza il quale nulla nasce, cresce o fiorisce lo si tratta peggio delle bestie da trasporto! Cos’altro deve ancora subire? C’è un limite? Perché umiliare così tanto la sua dignità di essere umano? A questo punto senti che vorresti fare il mondo a pezzi, senti che sei schifato, senti che vorresti cambiare paese e, infine, ahimé!, senti che il tuo è solo uno sfogo, lo sfogo di un poveretto. In fin dei conti, sotto sotto, senti che sei solo un vigliacco e che quello che in realtà ti interessa è arrivare a casa, mangiarti il tuo piatto di spezzatino con patate, berti il tuo bicchiere di vino, accendere la televisione e sperare di non tirare le cuoia durante la notte.
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