Il vecchio al pronto soccorso

 

Ti sei mai trovato, Rossi, ad assistere persone in fin di vita, in un ospedale, in un ricovero per anziani? Insomma, ti sei mai trovato di fronte a un moribondo?

Io ho fatto questa esperienza in un pronto soccorso. Ero andato per farmi medicare un dito dopo avergli dato, per sbaglio, un colpo di martello. C’era tantissima gente che aspettava e pochi dottori e infermieri. Il vecchio era su una barella, rantolava quando lo vidi. Lui non mi notò. Non penso, nonostante fossi lì a pochi passi. Era alle prese con cose fondamentali della vita ben più importanti delle ombre che gli baluginavano attorno.

Arrivò un prete. Si vede che qualcuno l’aveva chiamato. Andò dritto dritto da lui. Iniziò a parlargli. Capì, sicuramente capì che, nello stato in cui era, gli restava pochissimo da vivere. Voleva fare in fretta a dargli i sacramenti, ma Dio non glielo permise. Il vecchio morì mentre gli mormorava qualcosa. Era rimasto con gli occhi spalancati e la bocca aperta.

Quando il prete capì cos’era successo, fece una smorfia. Sicuramente deluso perché non era riuscito a finire il suo lavoro. Non gli mise il crocifisso sulle labbra, non si scompose, non si agitò, non chiamò qualcuno, diede solo un’occhiata in giro: non vide nessuno, nonostante fossimo tutti lì a guardarlo. Gli chiuse gli occhi, la bocca, gli incrociò le mani sul petto, lo coprì fino al collo con la coperta. Si fece il segno della croce e poi sparì, lasciandolo caldo caldo lì sulla barella.

Il vecchio, nel modo in cui l’aveva lasciato il prete, sembrava dormire.

Come uomo poteva essere chiunque. Aveva una fronte ampia, capelli bianchi, viso ovale; dall’aspetto era difficile dire se appartenesse ai Rossi oppure a qualche altra classe. Era un uomo e basta. Un cadavere su una barella. Una vita, un essere umano, un mondo, un universo, un niente, lì di fronte a me, in quel corridoio freddo, con gente tutt’intorno.

Chissà qual era stata l’ultima immagine su cui si erano chiusi i suoi occhi: il tetro soffitto del corridoio del pronto soccorso, il viso pallido del prete, oppure, in quel momento dei momenti, stava ricordando qualche esperienza lontana o vicina della sua vita? Difficile dirlo. Ma, dato che cercava di dire qualche parola al prete, allora non poteva avere nello stesso tempo altre immagini per la mente, soprattutto nel momento in cui stava per spegnersi, perché, quando le forze sono minime, le immagini al cervello, oltre che sfocate, arrivano anche lentamente e con fatica. I suoi occhi, probabilmente, si erano chiusi tra il tetro soffitto del pronto soccorso e il viso del prete. Le tenebre, da un istante all’altro, l’avevano inghiottito per sempre.

Dal viso si poteva dedurre che, da giovane, era stato un uomo fiero e sicuro di sé. E ora? Lì, né più né meno che come un cane morto, come un albero morto, come la carcassa di una macchina lasciata sul ciglio di una strada, come un rudere che ti chiede: “Perché sono finito così?” e tu non sai cosa rispondere.

Quale senso potrebbe avere la materia al di fuori di quello che gli diamo noi? Non insegui questo pensiero. Pensi solo: ecco come va a finire tutto il traffico di una vita, tutte le ambizioni, tutto quel dimenarsi a destra e a sinistra. Ti salta anche alla mente che non conta nulla se uno muore com’è morto lui o in un altro modo. Insomma, morire nel proprio letto o su una barella mentre sei parcheggiato al pronto soccorso di un ospedale, cosa vuoi che cambi?

Anch’io, continuavo a rimuginare, mentre seguitavo a guardare il morto, anch’io un giorno morirò, resterò senza fiato, senza pensieri, senza parola, senza vista, senza vita e, fino a quando non mi avranno cremato, sarò anche un fastidio per gli altri. “Di troppo”, avrebbe detto Roquentin, ne “La nausea” di Sartre. Di troppo? Sì, di troppo, ma solo per gli uomini, non per la natura. Per lei, la morte è tanto naturale quanto andare al cesso e non ha importanza dove e come muori.

L’idea di questa fine così atroce e grottesca ti porta, passo dopo passo, al colmo della rivolta contro gli elementi, una rivolta impotente e sorda. Vorresti, per certi versi, scomparire subito, non essere mai esistito, farla finita una volta per tutte. A che scopo aspettare? Prima o poi toccherà anche a te. La tua storia è la storia d’una morte annunciata: sta scritto così.

Mentre sei lì di fronte a quel cadavere, ti prendono lo sconforto, l’abbattimento, l’impotenza, e tutto in una volta. Sai, sei crudelmente conscio. Ti verrebbe da commettere qualche pazzia. Ti controlli. Gli altri non ti vedono o fanno finta di non vederti, come fanno finta di non vedere il morto che giace sulla barella lì di fronte ai loro occhi. E poi cosa può importare a loro il morto sulla barella? Se sono lì è perché non stanno bene. In fin dei conti, potrebbero, così, da un momento all’altro, morire e trasformarsi anche loro come lui.

I problemi di quel cadavere, in un modo o nell’altro, erano ormai stati messi tutti a tacere ma i miei rimanevano. La realtà è, come la mette brillantemente il poeta inglese John Donne, che non è mai l’altro che muore, ma una parte di te stesso e che la campana non suona per l’altro ma per ricordarti che prima o poi toccherà anche a te.

Più stavo lì, più sentivo qualcosa di burrascoso sorgere in me. Sfogo silenzioso e inutile. Continuavo a fissare i tratti del suo viso che, via via che il tempo scorreva, iniziavano a distendersi e ad assumere un’espressione serena, quelle labbra sempre più scolorite, che non avrebbero più riso, baciato, sentito la brezza del vento sfiorarle, che non si sarebbero più aperte.

La mia testa, a quel punto, stava scoppiando. Aspettavo che mi chiamassero, che mi medicassero il dito, mi mandassero via. Invece, imbambolato e composto, lì, di fronte a quel cadavere, continuavo ad aspettare e a pensare l’impensabile. Il volto di quel nessuno sulla barella si era certamente raffreddato, stava lì tranquillo nel suo sonno eterno, nel mare di tenebre dove ormai sguazzava.

Poi, mentre ero lì, non so cosa mi è successo. Forse sono svenuto, forse no. Tutto quello che so è che, quando mi sono svegliato, e non so dirti quanto tempo dopo, anch’io mi sono trovato su una barella nel corridoio del pronto soccorso. Il mio dito era fasciato. Sentivo solo bruciore. Il morto non c’era più. L’avevano portato via, forse all’obitorio. Da lì in poi, la burocrazia avrebbe fatto il resto. Le cose, poi, alla fine, si sarebbero risolte così.

Per un po’, ho fissato il luogo dove qualche minuto prima si trovava il cadavere del vecchio: si nasce dal nulla e si sparisce nel nulla. Quel vuoto, quella fine, mi davano fastidio, mi spingevano a pensare. A questo punto non ho resistito più, sono saltato giù dalla barella e sono corso via.

Vedere Ha un senso la vita?

 

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