Il vecchio al pronto soccorso – in due post, il secondo
Quale senso potrebbe avere la materia al di fuori di quello che gli diamo noi? Non insegui questo pensiero. Troppo arcano, troppo filosofico, troppo inutile. Pensi, invece, pensi a qualcosa del genere: ecco come va a finire tutto il traffico di una vita, tutte le ambizioni, tutto quel dimenarsi a destra e a sinistra. Ti salta anche alla mente che non conta nulla se uno muore com’è morto il vecchio sulla barella o in un altro modo. Morire nel proprio letto o su una barella mentre sei parcheggiato al pronto soccorso di un ospedale, cosa vuoi che cambi?
Anch’io, continuavo a rimuginare, mentre seguitavo a guardare il morto, anch’io un giorno morirò, resterò senza fiato, senza pensieri, senza parola, senza vista, senza vita e, fino a quando non mi avranno cremato, sarò anche un fastidio per gli altri. “Di troppo”, avrebbe detto Roquentin, ne “La nausea” di Sartre. Di troppo? Sì, di troppo, ma solo per gli uomini, non per la natura. Per lei, la morte è tanto naturale quanto un qualsiasi altro evento e non ha importanza dove e come muori.
E così, pensiero dopo pensiero, l’idea di questa fine così atroce e grottesca ti porta alla rivolta contro gli elementi, una rivolta sciocca, impotente, sorda. Vorresti scomparire subito, non essere mai esistito, farla finita una volta per tutte. A che scopo aspettare? Prima o poi toccherà anche a te. La tua storia è la storia d’una morte annunciata: sta scritto così.
Mentre sei lì di fronte a quel cadavere, ti prendono lo sconforto, l’angoscia, l’impotenza, e tutto in una volta. Sai, capisci, vedi, sei conscio, crudelmente conscio. E a cosa serve? Sei già incazzato nero. Ti viene voglia di commettere qualche pazzia. Ti controlli. Gli altri non sanno cosa stai pensando, ti vedono, ma fanno finta di non vederti, come fanno finta di non vedere il morto che giace sulla barella lì di fronte ai loro occhi. E poi cosa può importare a loro del morto sulla barella? Se sono lì è perché non stanno bene. In fin dei conti, potrebbero, così, da un momento all’altro, morire e trasformarsi anche loro in un cadavere. E comunque, i problemi del vecchio erano ormai stati messi tutti a tacere, ma i nostri rimanevano.
Non è mai l’altro che muore, ma una parte di te stesso, dice così John Donne e così è. Più stavo lì, più sentivo qualcosa di burrascoso sorgere in me. Sfogo silenzioso, sfogo vano, sfogo e basta. Continuavo a fissare i tratti del suo viso che, via via che il tempo scorreva, iniziavano a distendersi e ad assumere un’espressione serena. Le sue labbra, sempre più scolorite, non avrebbero più riso, baciato, sentito la brezza del vento sfiorarle, non si sarebbero più aperte, mosse.
La mia testa, a quel punto, stava scoppiando. Aspettavo che mi chiamassero, che mi medicassero il dito, mi mandassero via. Invece, imbambolato e composto, lì, di fronte a quel cadavere, continuavo ad aspettare e a pensare l’impensabile. Il volto di quel nessuno sulla barella si era certamente raffreddato, stava lì tranquillo nel suo sonno eterno, nel mare della notte dove la Signora delle tenebre l’aveva gettato.
Poi, mentre ero lì, non so cosa mi è successo. Forse sono svenuto, forse no. Tutto quello che so è che, quando mi sono svegliato, e non so dire quanto tempo dopo, anch’io mi sono trovato su una barella nel corridoio del pronto soccorso. Il mio dito era fasciato. Sentivo solo bruciore. Fuori era già buio e il morto non c’era più. L’avevano portato via, forse all’obitorio. Da lì in poi, la burocrazia avrebbe fatto il resto. Le cose, poi, alla fin fine, si sarebbero sistemate così.
Per un po’ ho fissato il luogo dove qualche minuto prima si trovava il cadavere del vecchio: si nasce dal nulla e si sparisce nel nulla. Quel vuoto, quella fine, mi davano fastidio, mi spingevano a pensare. Cos’era rimasto di concreto di quell’essere? Nulla, solo il suo “fu” buco nell’aria. A questo punto non ho resistito più, sono saltato giù dalla barella e sono corso via, sono corso fuori, lì nel buio che mi aspettava!