L’ editore boss e l’industria libraria nel Paese delle meraviglie
Strano, molto strano, ma non ho mai letto un articolo, uno scritto che avesse attaccato direttamente o indirettamente le industrie capitalistiche della carta stampata. È un fatto questo che dovrebbe creare qualche preoccupazione. C’è, però, una ragione, una ragione molto evidente e anche molto deludente. Se uno scrittore scrivesse qualcosa contro l’editoria, chi poi lo pubblicherebbe? Nessuno! Le case editrici in generale e la casa editrice in cui lui sta già, eventualmente, pubblicando i suoi libri, oppure quella dove si indirizzerebbe, una volta denunciata l’editoria come organizzazione capitalistica e sfruttatrice, troverebbe difficoltà a farsi editare. In altre parole, non si può chiedere ad un editore di pubblicare la propria opera e contemporaneamente accusarlo di sfruttamento. È un controsenso. Ecco la gabbia e il bavaglio dello scrittore nei confronti dell’editoria.
Inoltre, come si sa, i boss non si toccano e l’editore è un boss a tutti gli effetti. Uno che ha acquisito l’arte di contrattare su guadagni e poteri, l’arte della diplomazia, l’arte, tout court, del mestiere dello sfruttatore. Si è venuto così costruendo lungo la storia dell’industria libraria un genere di tacito accordo fra l’editore capitalista e lo scrittore schiavo: il primo è un capitalista, ma non è visto come tale perché nessuno l’ha mai denunciato come tale; il secondo è uno schiavo perché non ha mai trovato il coraggio di ribellarsi contro colui che lo sfrutta, che prospera sulle sue spalle. Ecco le parole chiave, non dette, ma sottointese, che l’editore dice allo scrittore:
“Accontentati del fatto che ti pubblico, che vendo i tuoi libri, che ti do lustro, che ti do soldi, che ti rendo famoso. Cos’altro vuoi? Denunciarmi? E poi chi ti pubblicherebbe?”
È nato così l’indegno contratto a cui si deve sottoporre un autore. Non ha scelta se vuole pubblicare il suo lavoro, e vuole! Un contratto, il suo, tra padrone e schiavo. Non si tratta però del solito schiavo, del solito servo e leccaculo. Affatto. Lo schiavo spesso subisce la violenza della schiavitù ma non la capisce, lo scrittore schiavo invece è coscientissimo della sua schiavitù e nonostante ciò, tace; e nonostante ciò, se la sorbisce facendo l’ipocrita e il finto tonto.
Ma chi è, poi, veramente (e lasciamo perdere i Feltrinelli, gli Einaudi, i Mondadori e i Rizzoli) l’editore? La risposta a questa domanda è la più semplice e banale al mondo: spesso l’editore è uno scrittore mancato, un amateur delle lettere, uno che ha provato a scrivere qualcosa, ma il suo è rimasto un aborto di scrittura. Ecco allora l’idea di appropriarsi delle idee di quelli che di idee ne hanno facendo l’editore. Così, pubblicando i loro libri e impadronendosi dei loro diritti, lo scrittore mancato, l’editore, scopre, oltre al guadagno, scopre anche che può umiliare quelli che la scrittura ce l’hanno nel sangue. Come? Rifiutando, quando vuole, le loro opere.
Ecco qualche esempio. “Se questo è un uomo” di Primo Levi è stato rifiutato dalle case editrici; “La coscienza di zeno” di Italo Svevo, è stato rifiutato dalle case editrici; “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, è stato rifiutato dalle case editrici; “Vai dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro, è stato rifiutato; “Con le peggiori intenzioni” di Alessandro Piperino, è stato rifiutato; “Il Partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio, è stato rifiutato; “Gli Indifferenti” di Alberto Moravia, è stato rifiutato, ecc. Praticamente alcune delle opere più importanti della letteratura italiana del 20esimo secolo sono state rifiutate dalle case editrici più in vista. Basta leggere il libro di Gian Carlo Ferretti “Siamo spiacenti. Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti”, per rendersi conto del macello che questa industria ha fatto di veri e propri capolavori letterari. Perché? Perché anche i mandarini che lavoravano per loro facendo l’editing, non avevano abbastanza cervello per capirli. Non è possibile, dici tu lettore. È un’assurdità. Per nulla. Sono fatte proprio di queste incongruenze le case editrici.
La pagina più inquinata e dolente sia dello scrittore italiano sia degli editori è che comunque si adeguano tutt’e due alle regole stabilite e si abbassano di fronte al potere. Di questi scrittori e di questi mercanti della stampa che strisciano, che chiudono la bocca, che si fanno addirittura sponsorizzare dallo Stato ( vedere Lo Stato predatore ), il Paese è pieno. Infatti, se si deve glorificare qualcuno con le “auliche lettere”, allora questo è proprio il Sistema. Voilà lo scempio di un’arte che avrebbe dovuto essere libera da ogni influenza, pura espressione dell’autore; ecco la museruola occulta che gli Stati predatori mettano agli scrittori e agli editori.
Le conseguenze storiche e attuali di questo infame connubio fra editore e scrittore sono state e sono tutt’ora disastrose nel senso più ampio del termine, particolarmente in Italia dove il popolo, rispetto a tanti altri paesi europei come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, è rimasto, grazie ad un’editoria venduta da un lato e agli scrittori vili e prezzolati (con qualche eccezione) ai potenti dall’altro, è rimasto un popolo becero e ignorante ( vedere Il Paese delle meraviglie ).
Vorrei ora provare ad abbozzare il mio editore. Io voglio nuovi editori sul mercato della carta stampata, editori che non appartengono a nessun Sistema, che non sono venduti agli Stati predatori, alle ideologie politiche, religiose, capitalistiche, ai sistemi chiusi; voglio inoltre editori che siano all’altezza di distinguere tra quelli che hanno qualcosa da dire e quelli che si ripetono, quelli che adorano il vecchio din don di una campana bucata che per quanto rimbomba e fa rumore, rimane pur sempre una vecchia campana bucata. Le cose cambiano, dice Tomasi di Lampadusa, ma in verità rimangono le stesse e gli editori italiani, ancora più degli scrittori, hanno molto a che fare con la morte della nostra cultura, quindi della nostra nazione.
Io voglio editori che vedano l’arte in generale e la scrittura in particolare in modo nuovo. Gli artisti non sono solo gli artisti che conosciamo. Ci sono altre, tante altre categorie di artisti che non vengono riconosciuti come tali. Tra un muratore che costruisce una casa perfetta e originale e un pittore che dipinge un quadro in modo perfetto e originale, non vedo differenza; tra un contadino che produce ortaggi in modo perfetto e originale e un autore che scrive racconti in modo perfetto e originale, non vedo differenza; tra un sarto che cuce un vestito in modo perfetto e originale e un compositore che compone un brano musicale in modo perfetto e originale, non vedo differenza. Bisogna valutare tutti i mestieri, tutte le professioni, tutti i lavori e portarli a livello artistico e di uguale importanza. Non c’è nulla di dato nel mondo, è tutto costruito e ogni costruzione è all’insegna dell’arte.
Se si deve per forza fare una scelta fra uno scrittore semianalfabeta e rozzo che racconta però una storia di vita vera, vissuta, scritta col proprio sangue e uno scrittore che riempie pagine e pagine di bella scrittura e con stile ma il cui contenuto è solo un’abbuffata di vuotaggine ragionata, uno zero assoluto, allora al diavolo lo stile, al diavolo la vuotaggine ragionata, al diavolo le campane bucate, si deve optare per il primo, per lo scrittore semi-analfabeta e rozzo. Questi è un milione di volte meglio di uno che produce una scrittura perfetta, ma priva di vita, di contenuto e di senso.
Oggi, nel mondo malatissimo in cui viviamo, si è arrivati al punto che un critico d’arte d’una certa reputazione può fare d’una opera pittorica scadente un capolavoro; un critico letterario può fare d’una opera mediocre un best seller internazionale; lo stesso vale per un critico cinematografico, anche lui può fare d’un film insignificante un successo di incassi. Ormai nella nostra cancerosa e in fin di vita società, l’imbroglio, l’obbrobrio e l’impostura sono diventati la regola; l’etica, il buon senso e l’onestà l’eccezione.
Condivido completamente.