La mia vita, parte quarta
Il tempo è studio
Gli americani dicono, “il tempo è denaro”; i filosofi dicono, “il tempo è vita”; i fisici dicono, “il tempo non esiste”; per me “il tempo è studio”.
Avevo elaborato un piano per sfruttare al massimo tutto il mio tempo libero. Consisteva nell’applicare ogni idea e marchingegno in favore dello studio. Ad esempio, il luogo dove abitavo – pensioni, camere in affitto, mono locali, piccoli appartamenti – lo riempivo di citazioni scritti su pezzi, strisce e fogli di carta che poi appendevo su muri, armadi, frigoriferi, scaffali, ovunque. Le pareti del bagno erano tappezzate di fotocopie di libri zeppi di regole grammaticali, di poesie che cercavo di imparare a memoria, di teorie scientifiche, concetti filosofici, importanti eventi storici. Scrivevo anche a mano, copiavo tutto quello che m’interessava e piaceva. L’atto di copiare, di premere la punta della penna sulla carta bianca era importantissimo per memorizzare le parole: s’imprimevano con più facilità nella memoria. E non solo. Questo modo di fare mi aiutava, dopo un po’, a capire meglio cosa stavo leggendo, imparando, studiando. Era come se entrassi nel cervello dell’autore e seguissi, insieme a lui, le sue idee, intenzioni e sentimenti.
Quando poi mi sedevo sull’asse del gabinetto, non era unicamente per necessità naturale, era anche un piacere della mente e dei sensi. Da lì potevo leggere e rileggere tutto quello che c’era scritto su quei fogli. Di fronte al WC incollavo brani di libri che stavo leggendo in quel momento e che occupavano la mia mente in modo particolare. I miei occhi divoravano golosamente tutto quel pensiero che mi stava davanti. Di raro entrava qualcuno a casa mia e quando ciò avveniva, dovevo dare spiegazioni per non passare per matto. Ho ancora dubbi di essere mai riuscito nel mio intento.
Quando s’incomincia a imparare una lingua, il lessico che uno conosce è zero o quasi zero. I testi scolastici insegnano molte cose come l’alfabeto, la struttura della frase, la grammatica, la fonetica, la pronuncia, le regole, ecc, prima d’insegnare come parlare la lingua. Ebbene io facevo l’opposto. Mi facevo prima una lista di parole e di espressioni della lingua di tutti i giorni e poi le apprendevo a memoria il più velocemente possibile. Erano parole ed espressioni di prima necessità, come dov’è il municipio, quanto costa questo paio di scarpe, come ti chiami, dove abita Felix, come si dice in francese “camera”, cosa vuol dire questa parola, da dove vieni, ecc. Queste parole, frasi fatte, detti, li prendevo da altri libri o dizionari. Poi procedevo così: tutte le mattine prima di andare a lavorare e la sera prima di spegnere la luce, le leggevo a voce alta una, due, tre volte, dipendeva dal tempo che avevo a disposizione e la sera da quant’ero stanco. Via via che le imparavo a memoria, le sottolineavo per non doverle rileggere. È una perdita di tempo ripetere una cosa quando si sa già, passavo a quelle che non avevo ancora memorizzato.
La tecnica dell’apprendere a memoria era questa: utilizzavo tre evidenziatori con tre colori diversi, rosso, blu e giallo. Le parole e le frasi evidenziate in rosso erano le più difficili da memorizzare, quelle in blu meno e quelle in giallo le avevo quasi fissate nella memoria. Poi, gradualmente, quelle che avevo ormai bene impresse nella mente, non le leggevo più, mi concentravo sulle rosse, le più difficili. Mi è capitato, e più d’una volta, di scrivermi sulla fronte i vocaboli ribelli che non riuscivo a memorizzare. Questa pratica si è rivelata molto utile. L’atto stesso di scrivere una parola sulla fronte e poi leggerla e rileggerla tutte le volte che mi guardavo allo specchio, è come l’imprinting, dopo un po’ non la dimenticavo più. Ovviamente rimanevo in casa quando mi scrivevo cose sulla fronte. Solo una volta mi ero dimenticato di cancellare quello che mi ero scritto sulla fronte e mi accorsi del fatto che la gente sul metro continuava a guardarmi, guardava e cercava di leggere quello che c’era scritto.
Anche sul lavoro avevo studiato un modo per imparare. Mi riempivo le tasche di fogli e pezzi di carta con liste di parole e trovavo sempre, in un modo o in un altro, il mezzo di andare al cesso e, una volta lì, dare un’occhiata in fretta e furia a tutte quelle cose scritte che avevo nelle tasche. Scrivevo parole anche sulle mani, fra le dita, per averle sempre sotto gli occhi. Se poi lavoravo da solo, la cosa mi era ancora più facile. Non mi sono mai fatto beccare o scoprire da un capo. I lavori che facevo, qualsiasi robot avrebbe potuto farli, così potevo utilizzare la materia grigia in mio favore. È quello che facevo. Sfruttare ogni istante in favore dello studio era il mio obiettivo e, se qualche volta non ci riuscivo, poteva succedere, rarissimamente, ma poteva, ebbene me la prendevo con me stesso. Non perdevo un istante. Ogni pizzico del mio tempo era prezioso e dovevo farne tesoro. Anche in ascensore, nelle pause dei film, su tram, bus, metro, treni, nelle code, nelle sale d’attesa, mentre prendevo un caffè o mangiavo, ovunque potevo, studiavo, imparavo, m’istruivo, mi educavo.
Non sono stato mai geloso degli altri studenti, di quelli che imparavano più in fretta di me, di quelli che avevano la testa più lucida della mia o che avevano più tempo di me per studiare. La parola “gelosia” non faceva parte del mio lessico. Non entravo mai in competizione coi miei compagni di classe, non li pensavo neppure, erano lì nella classe sì, ma era come se non ci fossero. Anche la gente in giro per il mondo era lì, sì, ma era come se non ci fosse. Ero sempre io nei miei pensieri e nei miei studi e questi mi tenevano bene occupato. La competizione, la prova, il confronto li facevo sempre con me stesso, contavo solo su me stesso, avevo fiducia unicamente in me stesso e le sfide che la vita mi procurava, erano sempre e solo con me stesso.
Il tempo è studio, ma non tutto il tempo è ugualmente proficuo allo studio. Studiare dopo una giornata di duro lavoro (lavoravo in fabbrica, sui cantieri edili, a pulire pavimenti, come lavapiatti, come scaricatore di merci) non è come studiare quando sei ben riposato dopo una notte di sonno e il mattino ti senti in piena forma. Allora, avevo deciso, tutte le volte che il lavoro me lo permetteva, di alzarmi una due ore prima e studiare a mente fresca. Certo, una bella differenza se paragonavo quello che imparavo il mattino con quello che imparavo la sera a scuola con corpo e mente stanchi. Quest’idea di alzarmi presto il mattino e studiare a mente fresca era dovuta alla mia volontà. Questa, a un certo punto, mi stava ammazzando, mi spingeva all’estremo pur di poter studiare. Quando la stanchezza era così mostruosa e non riuscivo più a mettere un’acca nella zucca, scattava la battaglia tra volontà e cervello (la volontà è figlia del cervello, un suo prodotto potente e a volte ribelle). Alla lunga vinceva sempre lei, la volontà. Ero ormai nel suo giro e non sapevo come difendermi, ero diventato il suo schiavo, il suo burattino, un burattino della volontà e dell’apprendimento. Il mio motto era: studia o crepa!
Quando andavo in Australia partendo dal porto di Napoli, viaggiavo per mare e lo facevo per almeno quattro ragioni. La prima perché il viaggio costava meno che in aereo; la seconda perché sulla nave (Achille Lauro) potevo studiare e leggere a tempo pieno oltre che essere ben nutrito; la terza perché potevo visitare tutti i posti in cui faceva scalo la nave; e la quarta perché per me questo viaggio dall’Europa in Australia e dall’Australia in Europa era come una vacanza in un albergo a 5 stelle, un paradiso vero e proprio: non dover sgobbare, avere cibo saporito e buono a volontà, avere 24 ore su 24 a mia disposizione, una biblioteca, quella della nave (ma io leggevo il più delle volte i miei libri, particolarmente a partire dal secondo viaggio, quando avevo appreso il tipo di libri che c’erano lì e come stavano le cose su quel transatlantico), insomma, un sogno. In quei viaggi, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, studiavo e leggevo a più non posso. Raramente il mio cervello, così riposato e nutrito, dava segni di essere saturo.
Non avendo i soldi per potermi comprare tutti i libri che volevo, li prendevo in prestito nelle biblioteche. Non sapevo perché, ma non riuscivo, e non riesco ancora oggi, a leggere un libro, non importa di che genere, senza penna o matita in mano. Tutto quello che posso dire è che ho una mente critica e che, quando leggo qualcosa che mi piace, mi piace anche scrivere qualcosa a riguardo e questo vale anche quando non mi piace, oppure faccio un segno sulla pagina seguito da una, due o tre crocette. In breve, riempivo i libri di scrittura. Una volta, a Melbourne, la bibliotecaria comunale si era accorta che ero io quello che scarabocchiava i libri della biblioteca. Mi ha bloccato all’uscita, poi ha preso tutti i libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca, li ha messi sul banco e uno dopo l’altro mi ha fatto vedere che la scrittura che c’era in essi era sempre la stessa ed era la mia. Come negarlo? Non si poteva scrivere sui libri, non su quelli della biblioteca pubblica! Se l’avessi fatto di nuovo, e lei se ne fosse accorta, mi avrebbe fatto pagare per tutti quelli su cui avevo già scritto!
In Danimarca ho imparato il danese, che non è una lingua facile, in poche settimane. Ricordo che si dovevano apprendere intere conversazioni a memoria e poi recitarle in classe. Bene, la mia memoria ormai, dopo anni di quel duro apprendimento, era affilatissima, pronta. Anche il mio cervello addestrato com’era da uno dei suoi stessi prodotti (il cervello insegna al cervello, no?), era molto ricettivo. Penso che mi siano voluti sei/sette anni per disclerotizzare (togliere la sclerosi, la rigidità) tutti quegli anni che non ero andato a scuola, vale a dire dalla terza elementare in poi. Alla fine di quel periodo, di quell’esercizio tempestoso, lui, il cervello, era di nuovo allenato e pronto. Infatti, riuscivo a imparare a memoria lunghi dialoghi in danese in brevissimo tempo e, con stupore degli altri studenti, più vecchi o più giovani di me, li recitavo in classe come se li avessi recitati da sempre. Nel giro di pochissimo tempo ero riuscito a imparare a leggere, scrivere e parlare il danese, almeno quel tanto che mi permetteva di vivere in Danimarca senza troppe difficoltà linguistiche.
Un altro mezzo che mi ha aiutato molto nello studio, sono state le cassette che mi auto-registravo e poi ascoltavo fino alla nausea. Le ascoltavo mentre mi facevo il bagno, la doccia, la barba, cucinavo, mi lavavo i panni, stiravo, pulivo e prima di addormentarmi. Mettevo sul nastro tutti quei brani di letteratura, storia, filosofia, scienza, poesia, proverbi, regole e concetti di ogni tipo, insomma le parole e le frasi che volevo imparare in fretta delle lingue che stavo studiando. Auto-registrarmi mi aiutava anche nel perfezionare la pronuncia delle parole e nel migliorare la mia dizione. La registrazione era un mezzo meraviglioso che mi ha sostenuto moltissimo nello studio e negli esami. Era diventata anche un sonnifero: mi addormentavo sempre prima che la cassetta finisse.
Mi è capitato, in quei tempi, tempi favolosi e indimenticabili, di vedermi come un’aquila, un avvoltoio, insomma un essere che scendeva dal cielo in picchiata su un paese e, in men che non si dica, gli ghermiva lingua, storia, costumi e anima e poi volava di nuovo via con tutto quel meraviglioso bottino culturale. Quello era il tempo in cui il corpo si sentiva immortale e la mente potente e pronta a entrare nel cuore di ogni cosa e a strappare i più intimi segreti, i più intimi brandelli di vita e di storia e poi, con questa nuova carica culturale e spirituale, partire alla ricerca di altri tesori della mente.
“Il tempo è denaro”: non per me; “il tempo è vita”: non per me; “il tempo non esiste”: non per me; per me il tempo era ed è rimasto “studio”.