La mia vita, parte quinta

 

Il costo

 

 

Oggi, grazie al buon uso che ho fatto del mio tempo, ho un paio di diplomi universitari ottenuti uno in Spagna, alla Universidad de Complutense de Madrid e uno in Italia, all’Università per Stranieri di Perugia e altra roba scolastica (ho seguito corsi universitari che interessavano a me in parecchie università sia in Australia che in Europa) che non sto qui a elencare. Non ho la minima idea di quel che valgano. Forse niente, forse sono solo pezzi di carta che danno a tutti quelli che frequentano i loro corsi e nulla più. Comunque, io non sono mai stato interessato ai titoli di studio, né ho mai fatto uso di essi a scopo lavorativo, e tanto meno li ho mai menzionati tutte le volte che ho potuto. Quando mi sottoponevo a degli esami, non era per ottenere diplomi, era perché desideravo studiare, imparare e la sfida era sempre con me stesso. Non era per ottenere riconoscimenti che mi lambiccavo il cervello, era la conoscenza che volevo: volevo capire, capire in che mondo e universo vivevo. Desideravo conoscere lingue, popoli, la loro storia, la vita, tutto. Il mio motto era ed è rimasto: “Non so, quindi soffro.” Lo studio nelle fabbriche della mente – scuole, collegi, università, ecc. – per quanto limitate, discriminatorie e ideologiche, era pur sempre importante per me.

In ogni modo, e senza volere offendere le fabbriche scolastiche (io le vedo così: alcune costruiscono macchine meccaniche e altre macchine mentali), che comunque si distinguono da paese a paese. Io, in ogni modo, mi considero un autodidatta e a self-made man in tutti i sensi. Gli scrittori, i personaggi, gli uomini e le donne che più mi hanno trasformato, formato, aperto gli occhi e rivoluzionato la mia esistenza, non li ho incontrati nelle fabbriche scolastiche, ma nella vita reale e nella lettura. E questo vale anche per Roger, lo studente squattrinato del Kansas che ho incontrato a Melbourne. I libri letti e le esperienze fatte nell’attrito della vita, sono stati e continuano a essere i miei maestri, i miei punti di riferimento, la mia linfa umana e spirituale.

I diplomi ottenuti, però, anche se non valgono nulla, li ho pagati cari. Anzi, carissimi. Prima di ottenerli ho dovuto superare prove, fare sacrifici, piegarmi ai bisogni, ai soprusi. Mi sono sottoposto a ristrettezze economiche al limite della sopravvivenza, per non parlare di tutta quella gamma di lavori umilianti, penosi, duri e pericolosi che ho fatto, lavori che mi abbrutivano, mi alienavano, mi portavano via ogni briciola di energia, mi rendevano una merce mediocre, comune, di poco costo e, in ultimo, facevano di me non “un essere umano”, ma “uno schiavo del sistema”. Non avevo scelta! Se volevo continuare a vivere e studiare, dovevo abboccare in piena coscienza all’amo della tirannia legalizzata.

Rammento, e non senza un brivido, quando a Parigi ho tirato giù un muro alto, vecchio e traballante tra due edifici abitati. Chissà per quale ragione era rimasto lì dopo la costruzione dei due palazzi. Era pericoloso e poteva crollare in qualsiasi momento, mettendo a rischio la vita degli abitanti e danneggiare gli appartamenti ai piani terreni. L’impresa che sovraintendeva quel lavoro non aveva trovato nessuno che se la sentisse di demolirlo: troppo rischioso. L’ho fatto io.

In Australia, nel Victoria, ho trascorso due settimane da solo in un posto isolato, arido, infuocato dal sole e infestato da serpenti. Dovevo scavare con pala e piccone le fondamenta di alcuni silos. Ricordo che a volte, quando alzavo il piccone e lo portavo a piombo sulla testa e per qualche istante lo tenevo così, alzato e in equilibrio, contemporaneamente sollevavo lo sguardo verso il cielo che si apriva sopra di me in tutta la sua immensità. Quella vista mi faceva pensare a un milione di cose e particolarmente a quant’ero buffo, ridicolo e grande. Io, meno d’un miliardesimo d’un miliardesimo d’un miliardesimo d’un atomo dell’universo, io lì con quell’arnese in mano, coperto di sudore e bruciato dal sole, a sbirciare quella sconfinata meraviglia tra una picconata e l’altra! Allora mi veniva da ridere e ridevo, sghignazzavo forte e sgangheratamente in quelle pianure sperdute e sconfinate. Poi quel riso si trasformava in riflessione, una riflessione lunga, solitaria, piena d’interrogativi e desideri.

Facevo questi lavori pesanti e pericolosi perché intascavo più denaro. A volte, in due settimane, guadagnavo più soldi di quanti ne avrei guadagnati lavorando in una fabbrica per mesi. Questo mi permetteva di pagarmi gli studi, di prendere lezioni private, oltre a concedermi di assentarmi dal lavoro tutte le volte che avevo esami importanti da preparare.

Quando mi hanno assunto, dopo un esame, come guida turistica alla Paris Vision di Parigi (avevo quasi imparato a memoria tutta la guida, un libricino che conteneva cinque lingue), mi era sembrato irreale, un sogno, non riuscivo a crederci. Come avevo fatto, io, un pastorello analfabeta e morto di fame della Calabria, ad arrivare fin lì? Non lo sapevo, ma ci ero arrivato!

Quella sera, mentre ritornavo a casa, dopo quella favolosa notizia, sembrava che i miei piedi non toccassero terra. Sono entrato nella mia camera con un cuore difficilmente controllabile tanto era emozionato. Avrei voluto tanto, ma proprio tanto, in quella occasione, poter condividere quel mio stato d’animo, quel momento così decisivo, importante e bello della mia vita, con qualcuno, qualcuno che mi fosse vicino, che mi stimava, voleva bene, ma non avevo nessuno. Ero solo anche se di gente ne conoscevo.

Appena chiusa la porta dietro di me, mi sono buttato sul letto con il viso premuto contro il cuscino e le dita delle mani che stringevano a più non posso la coperta e ho pianto, pianto, pianto, mai prima avevo pianto in modo così importante e significativo.

Da allora, la qualità della mia vita è cambiata radicalmente e definitivamente; da allora la mia vita non è stata più merce mediocre e poco pagata al servizio di quelli che non hanno mai abbastanza; da allora la mia vita è diventata la mia vita, la mia proprietà, il mio volere, senso. Certo, avrei continuato a lavorare, ad abboccare all’amo della tirannia legalizzata, ma non sarebbe stato più come lo è stato fino ad allora. Ancora una volta, io non ero più io.

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