La mia vita, parte terza *
E fu luce
Alcuni anni dopo, una sera a Parigi, in un drugstore vicino all’Arc de Triomphe, dove mi recavo il sabato sera a cenare prima di andare al cinema (il premio che mi concedevo dopo una settimana di duro lavoro e studio), mi era presa la voglia di fare un giro per il locale. Era grande e c’era tanta merce dappertutto. Guardavo ogni cosa con meraviglia e piacere. Tutto luccicava ai miei occhi, tutto mi sembrava irreale, fantastico, di un altro mondo. Ero finito, passo dopo passo, in libreria e, ammaliato da tutti quei libri, mi ero messo a guardarli avidamente. A un certo punto ne ho preso uno in mano, non per caso, ma perché mi aveva incuriosito. Era piazzato su un piccolo poggia libri di plastica e aveva una fascetta rossa con la scritta: “Lettre ouverte à un jeune homme”, di André Maurois. Ho letto il retro di copertina, ho letto la prima pagina, l’ho sfogliato leggendo qui e là e, più leggevo, più mi sentivo prigioniero della lettura. Sono andato alla cassa e l’ho comprato. Quella sera non sono andato al cinema, sono ritornato a casa e, vestito, mi sono buttato sul letto con quel libro in mano e non l’ho mollato fino a quando non l’ho finito di leggere.
In quei tempi, e questa era ormai la mia vita, di giorno lavoravo e di sera andavo a scuola. Volevo diventare geometra e dopo continuare a studiare ingegneria. Volevo laurearmi, volevo fare soldi, comprarmi una Mercedes e così armato di laurea, soldi e Mercedes, andare prima a Trieste (dopo aver fatto il campo militare a Caserta, sono stato trasferito a Trieste) per dimostrare a quell’insegnante dell’esercito che io non ero diventato uno spazzino (con tutto il rispetto che oggi ho per i netturbini, allora la vedevo diversamente) e poi ritornare al mio paese per mostrare a tutti quello che io, un cafone, ero riuscito a fare.
Non è andata così. Quella sera a Parigi, dopo la lettura di “Lettre ouverte à un jeune homme”, mi era scoppiato in testa il torbido mondo che lo zio Carlo aveva svegliato in me quand’ero poco più che un bambino. Tutte quelle domande rimaste senza risposta, come per incanto, riapparvero nella mia mente con violenza. Il libro di André Maurois mi aveva fatto riflettere molto, mi aveva fatto capire che quello che stavo studiando a scuola non era quello cui la mia anima anelava, non era quello che mi avrebbe permesso di scoprire i misteri, le gioie, i dolori e le tribolazioni che la vita custodiva.
Da quella sera in poi, dalla lettura di “Lettre ouverte à un jeune homme”, per mia fortuna o sfortuna, ho smesso di voler diventare ingegnere, smesso di voler fare soldi, smesso di volermi comprare una Mercedes, di voler ritornare a Trieste e al paese in cui sono nato e mi sono buttato, anima corpo e mente, nella lettura di libri che rispondessero ai richiami del mio cuore e a studiare lingue e letteratura.
In seguito, crescendo crescendo, ho scoperto che era più facile studiare le lingue vivendo nei luoghi dove erano parlate. È quello che ho fatto. Ne ho imparate parecchie. Per imparare l’inglese sono andato in Australia; il tedesco in Germania; il danese in Danimarca; lo spagnolo in Spagna. Mi è successo, e non solo una volta, quando l’idea mi diveniva ossessiva, di lasciare un paese per andare in un altro senza un soldo in tasca e senza conoscere la lingua. Arrivavo a destinazione come meglio potevo. Una volta lì, mi mettevo subito all’opera. Il metodo era questo più o meno: le prime notti dormivo ovunque mi era possibile. Alla stazione, nella sala d’attesa, c’era sempre un albergo gratis e pronto. Mi è capitato anche di dormire in un sacco a pelo o sulla soglia d’un edificio. Poi iniziavo a cercarmi un lavoro – come lavapiatti, come scaricatore di merce al mercato, come pulitore di negozi -, lavori dove la lingua non era indispensabile. Non trovavo difficoltà a fare questo. Negli anni Sessanta, grazie al macello umano che la Grande Carneficina si lasciava alle spalle, l’Europa era un cantiere unico, si trovava lavoro ovunque, almeno per quelli come me che non avevano una specializzazione.
In seguito cercavo una camera e una scuola di lingue. A un certo punto mi sono accorto che, anche se amavo molto le lingue e la letteratura, non saziavano comunque la mia fame di conoscenza. Avvertivo che mi mancava qualcosa, mi mancava un altro tipo di sapere, un sapere fatto di cose concrete e meno astratto. È stato così, anche se in modo superficiale, che ho aggiunto ai miei studi linguistici l’astronomia, la biologia e l’evoluzione darwiniana. Seguivo corsi e conferenze dove e come potevo. Leggevo tutti quei libri, i miei compagni più fedeli, che riuscivo a prendere in prestito dalle biblioteche o che potevo comprarmi.
Gradualmente ma costantemente, i corsi e le letture mi avevano trasformato senza che io me ne rendessi conto, mi avevano rubato il cervello, quel cervello che per tanto tempo mi ero trascinato dietro con pesantezza e sconforto, e avevano fatto di me un altro uomo: io non ero più io.
Ricordo che in Australia, nel Victoria, la sera dopo il lavoro, facevo chilometri e chilometri con il bus lungo una strada dritta e zeppa di sali e scendi per seguire un corso di antropologia all’Università di Monash. Più d’una volta, al ritorno, quand’ero stanco morto, mi capitava di addormentarmi sul bus e l’autista, che sapeva dove dovevo scendere, alla mia fermata mi scuoteva dicendo ad alta voce: “It’s time to wake up!” “È ora di svegliarsi!” E io schizzavo fuori dal bus come un proiettile.
Qualche anno dopo, all’Università di Melbourne, a un seminario sul big bang, ho incontrato Roger, uno studente americano del Kansas. Abbiamo fatto amicizia, ci frequentavamo. Anche lui lavorava, ma solo part-time. Era sempre squattrinato. Diceva che quei quattro soldi che guadagnava non gli bastavano a pagarsi l’affitto dell’alloggio in cui abitava. Roger aveva il dono della parola e gli piaceva parlare. Mi parlava dell’America, del Kansas, della bancarotta che aveva fatto suo padre. Studiava filosofia. Mi parlava tanto di questa materia. Secondo lui la scienza ci spiegava com’era fatto il mondo; la filosofia ci insegnava come vivere e se la vita aveva o non aveva un senso. Mi affascinava sentirlo parlare di queste e di tante altre cose. Mi sentivo attratto. Più me ne parlava, più mi coinvolgeva e più mi rapiva. Grazie a Roger, quando potevo, seguivo anche dei corsi di filosofia al Council of Adult Education. Mi piaceva, in particolar modo, andare a congressi e seminari tenuti da filosofi che parlavano dei loro studi, lavori e ricerche. **
* Preso, i 12 post di cui è composta questa mia breve autobiografia, dal terzo libro della Trilogia. “Figlio degli elementi e del big bang, l’autobiografia cosmica d’un essere umano”.
** Per favore, se qualcuno non desidera ricevere questi post autobiografici, me lo faccia sapere. Nessun problema. Anzi, ringrazio di cuore per avermelo detto.