L’incubo– quinta parte: un bambino del sud Italia (5)

Ad ognuno le sue esperienze borderline. Una di queste l’ho vissuta a Parigi qualche anno prima di lavorare come guida turistica alla Paris vision. Il mio disagio esistenziale, che da tempo tenevo sotto controllo a forza di volontà, ad un certo punto non ce l’ho fatta più. È scoppiato. Come conseguenza, una visione stomachevole, lugubre, insopportabile della vita si era impossessata di me. Non riuscivo a liberarmene. Detestavo ogni cosa, soprattutto la morte. La sola idea mi terrorizzava, mi rendeva impotente, ribelle, nevrotico. Non sapevo come sfuggirle, come togliermi dalla mente e dallo stomaco quello sconforto che mi stava distruggendo. Sprezzavo anche il mondo costruito dagli uomini. Era ed è rimasto intollerabile. Ne sapevo ormai qualcosa. La mia era un’esperienza dal vivo, un’esperienza vissuta lavorando e studiando e sempre al limite della sopravvivenza. Cercavo, comunque, qualche paragone accettabile tra il vivere insieme a degli animali umani e il vivere insieme a degli animali animali, come le capre, e non ne trovavo. La società caprina è un milione di volte migliore della società umana. Le capre non si ammazzano tra di loro e vivono pacificamente insieme. Ero arrivato alla convinzione che qualsiasi altro animale della terra, per quanto brutale, non avrebbe mai e poi mai potuto costruire una società così falsa e bestiale. Non parliamo poi della vita che conducevo, un incubo. Nulla mi divertiva, consolava, alleviava la mia disperazione. Parigi mi era diventata un cimitero. Era lo spavento, il terrore della realtà, lo sprezzo per il grottesco in cui vivevo e, quando non avevo un lavoro e non ne trovavo, non facevo che vedermi decomporre, codardo e incapace di reagire.

Questo periodo della mia esistenza era avvolto in un mal de vivre totale, dispotico, turbolento. Una ribellione violenta e silenziosa percorreva a dritta e a manca la mia vita. E non solo. Oltre al mio dramma sociale ed esistenziale, ero anche pieno di problemi, problemi di ogni sorta: economici, affettivi, di radici, di identità. Persino la mia salute (non ero ancora a conoscenza della mia talassemia), la cosa più bella che avevo e che mi faceva sentire immortale, era stata messa alla prova. Sguazzavo in un mondo di guai, di cose penose, sporche, dolorose. Avevo persino amoreggiato con l’idea del suicidio.

Guarda caso, un giorno del mio sconsolato vivere, così, per sfuggire in qualche modo al mio eventuale prematuro destino, avevo iniziato a scrivere, scrivevo poesie, brevi racconti, idee che mi scoppiavano in testa in un diario che portavo sempre con me. Ho scoperto che mi piaceva scrivere, che mi aiutava a liberarmi da quello che mi opprimeva. Era un sollievo tirare fuori dal cervello le idee che mi aggredivano, tormentavano. Sentivo che scrivere mi permetteva di stabilire un dialogo, un dialogo sincero e senza limite con me stesso. Era il mio primo dialogo: l’anima che parlava all’anima. Questo esercizio mentale mi calmava, mi metteva in contatto con le parti più profonde e inesplorate che c’erano in me, mi faceva sentire un altro, mi dava un senso, una direzione. Ho capito che la scrittura non era una fuga, ma una cura. Dopo questa rivelazione non ho più smesso di coltivare questa stupenda medicina mentale. Ho finito per riempire di parole parecchi diari, quaderni, bloc-notes. Di più. Mi ero comprato anche un piccolo registratore che portavo sempre con me, come il bloc-notes, per registrare in fretta e furia idee che mi venivano in mente come lampi e che non avrei avuto il tempo di scrivere.

Quando vivevo a Melbourne, mi ero associato ad un club di scrittori. Ci incontravamo ogni quindici giorni per leggere brani dei nostri lavori. Dopo la lettura, li passavamo al vaglio della ragione: criticavamo lo stile, discutevamo del contenuto, della forma, dell’originalità dell’opera e delle loro chance di pubblicazione. Mi piaceva molto questo esercizio mentale, questo ping-pong di idee acuiva il mio cervello e lo rendeva più produttivo e creativo. Col tempo e con l’aiuto di alcuni del club, ho potuto leggere alla radio di Melbourne qualche mia poesia. Quando mi sono ascoltato, mi è scoppiata una risata, una risata che non finiva più.

A 34 anni ho abbozzato il mio primo romanzo in inglese: Against the grain Contro corrente. L’avevo dato da leggere a Philip Adams, un giornalista e saggista australiano, del quale leggevo gli scritti e col cui pensiero orientaleggiante simpatizzavo. Era venuto lui stesso a riportarmelo a casa, ad Albert Park. Non c’ero. L’aveva lasciato dietro la porta con una lettera al suo interno. Dovrei averla ancora, a meno che non sia andata persa in uno dei miei considerevoli spostamenti e traslochi da un luogo all’altro. Il giudizio, comunque, non era positivo: troppe idee, troppo acerbo, poco comprensibile. Qualcosa del genere. Avevo scritto anche un saggio sull’esistenzialismo. Il professore di filosofia del Council of Adult Education, Max Charlesworth, disse che l’idea non era male, ma che avrei dovuto lavorarci ancora.

L’avventura dello scrivere mi ha portato a pubblicare, con piccole case editrici, 4 romanzi e tre raccolte di racconti: “Fiori di sierra”, 1993 (tradotto in greco); “Lis Finn”, 1994 (tradotto in greco); “La svolta”, 1997 e “La particella seminale”, 2002; e i racconti: “Anch’essi non sono che parole”, 1996; “Andando a Canberra”, 1998; “Ribelli non si nasce”, 2000. Da alcuni racconti sono stati tratti dei cortometraggi. “Il testamento di Orazio Guglielmini”, composto da quattro libri: “L’Indifferenza divina”, “Lo Stato predatore”, “Ha un senso la vita?” e “Il Paese delle meraviglie”, è il mio ultimo lavoro.

La mia opera letteraria, valga quel che valga, è il frutto della mia esistenza.

Nel prossimo post: il probo

 

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