L’Italia analfabeta – post 19

Se questo è un paese I

A questo punto della nostra Lettera, Rossi, voglio raccontarti qualcosa di personale. “Personale” per modo di dire perché, in realtà, tutto quello che ti ho scritto finora è “personale”. Io scrivo in prima persona. In ogni modo, mentre ero all’estero, avevo idealizzato un po’ troppo la zolla natale e non vedevo l’ora di ritornarci. Ricordo una conversazione con un mio amico, un certo Dalton, Denis Dalton, un australiano, che mi disse un giorno:

“Per quello che so del tuo paese, non sarei poi così ingenuo da credere che lì sia tutto rose e fiori. Comunque, sai, dopotutto, è il paese in cui sei nato, e questo, a volte, lo si difende a torto o a ragione”.

Era così, Rossi: se qualcuno parlava male del mio Paese, in quei tempi, partivo subito all’attacco. Ah, l’ignoranza, l’ignoranza!

Ricordo anche che, una volta, avevo regalato “I Promessi sposi” ad una gentil signora che aveva espresso la curiosità di leggere un romanzo del Paese delle meraviglie (Pdm). Perché “I Promessi sposi?” Perché la libreria in cui ero andato, in quel momento, non aveva altro. Era una vecchissima edizione. Lo comprai. Glielo diedi. A lettura finita, la gentil signora mi ha detto:

“Ma non esistono veri uomini nel romanzo che lei mi ha dato, o, se esistono, sono uomini-burattino, perché nei loro cervelli domina un burattinaio che l’autore chiama Provvidenza”.

Me l’ero presa, ma a torto: non avevo ancora letto questo capolavoro della letteratura meravigliosa.

In ogni modo, è meglio lasciare perdere, parliamo d’altro, parliamo piuttosto delle cose che mi sono successe da quando sono tornato in Italia. Partiamo con

La patente

Quando sono arrivato in Australia avevo la patente francese. Nel giro di qualche settimana ne ho ricevuta una australiana. Ho pagato solo per la traduzione. Anni dopo, in Danimarca, sono arrivato con la patente australiana. Dopo alcuni mesi, dato che intendevo viverci per qualche tempo, ho dovuto cambiarla. Sono andato all’ufficio di pratiche automobilistiche, ho dato la mia patente e, tre giorni dopo, mi hanno dato quella danese. Se ricordo bene, come in Australia, ho pagato solo per la traduzione.

Quando poi sono ritornato in Italia, ho dovuto farmi, of course, la patente. Non ti dico, Rossi, le scartoffie che ho dovuto compilare. Ho trascorso mesi e mesi chiedendo certificati di nascita e di residenza a destra e a manca, visite mediche, traduzioni, contatti costanti con l’agenzia di pratiche automobilistiche, soldi da pagare e scocciature a non finire. Alla fine, al controllo oculistico, mi è stato detto che dovevo portare gli occhiali. Io, però, vedevo bene, anzi benissimo. Vedevo sulla strada una monetina da lontano. Niente da fare. L’oculista mi diede nome e indirizzo del negozio dove comprarli.

“Faccia il mio nome e vedrà che le faranno anche uno sconto”.

Per dieci anni ho guidato con gli occhiali abbassati sulla punta del naso, perché se li alzavo, non ci vedevo o quasi. Ovviamente, avrei potuto non metterli, però, se mi avesse fermato la polizia, avrei dovuto pagare una multa.

Dopo dieci anni di sconforto, ho dovuto rinnovare la patente, quindi di nuovo l’esame oculistico. Questa volta, secondo l’oculista (non più lo stesso), i miei occhi erano perfetti e non dovevo portare gli occhiali mentre guidavo.

“Bene, me li tolga dalla patente.”

“Sì, ma deve pagare una tassa!”

“Cosa?”

“C’è una tassa da pagare”.

Voilà, Rossi, dopo avere aspettato tanto tempo per la patente, dopo aver sborsato soldi a destra e a manca, dopo aver guidato per dieci anni con quel fastidio davanti agli occhi, ecco il risultato: ho dovuto ancora pagare per farmi togliere gli occhiali dalla patente che mi erano stati imposti senza che ne avessi bisogno, ma solo per farmi pagare soldi e per rendermi la guida un inferno per dieci anni!

La voltura

Prima di morire, i miei genitori avevano diviso in parti uguali tra me e mia sorella la proprietà, la terra e la casa che avevamo. Ritornando dall’estero, ho deciso di vendere a mia sorella la mia parte. Andammo dal notaio e facemmo la voltura. Pagò lei tutte le spese per le pratiche. Così, dopo questa demarche burocratica, terra e parte della casa che mi appartenevano diventarono sue, giustamente.

Anni più tardi, mi arriva una tassa concernente la proprietà che mi avevano lasciato i miei genitori e che io avevo venduto a mia sorella. Sono andato al comune dicendo che quella proprietà non era più mia, perché l’avevo venduta ormai da anni.

“Qui risulta, rispose l’impiegato, che quella proprietà è ancora intestata a lei. Lei è il padrone. Potrebbe anche venderla, se volesse”.

Cos’era successo? Il notaio, per non pagare le tasse sui soldi che gli aveva dato mia sorella, non aveva fatto la voltura. La proprietà, quindi, era ancora mia a tutti gli effetti!

Un bar sulla cima dell’Everest

Poco dopo il mio ritorno dall’estero, volevo mettere su un business, così ero andato in una banca per vedere se potevo ottenere un prestito. Sì, potevo, mi aveva detto il bancario, ma dovevo avere una proprietà che valesse più del prestito richiesto. Più del prestito richiesto? Mi sono meravigliato. In Australia avevo ottenuto prestiti bancari senza ipoteche, semplicemente dopo che la banca aveva effettuato una piccola ricerca sul business che volevo avviare e, una volta fatta, mi avevano dato i soldi richiesti, senza preoccuparsi di sapere se avessi o non avessi una proprietà. Infatti, non l’avevo.

Chiesi all’impiegato: “Ma alla banca non interessa sapere che tipo di business intendo svolgere?”

“No, rispose. Alla banca interessa solo sapere se lei ha i soldi per pagare nel caso il suo affare andasse a rotoli. Per il resto, lei può anche aprire un bar sulla cima dell’Everest!”

Cosa?

 

Nel prossimo post, se questo è un paese II

Tratto da Il Paese delle meraviglie

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