L’Italia analfabeta – post 20
Se questo è un paese
Il venditore ambulante II
L’altro giorno, disse Orazio Guglielmini a Rossi, mentre stavo aprendo il cancello del cortile per mettere dentro l’auto, vedo che dietro la mia si era inchiodato un furgone carico di frutta. Era sceso in fretta e furia un bel giovane tra i 25 e i 30 salutandomi, afferrandomi e stringendomi la mano calorosamente e dicendomi che i suoi genitori erano preoccupati perché non mi avevano più visto o sentito da tempo. Si chiedevano come stessi. Poi, mentre diceva questo e altro e mi aveva liberato la mano, si era messo subito a mettere giù dal furgone alcune casse di pesche, meloni, fichi d’india (4 casse). Tutta l’operazione era avvenuta nel giro di qualche minuto.
Ho dato una sbirciata al giovane. Mi pareva di non averlo mai visto prima. Intanto a fianco della portiera dell’auto c’erano quelle 4 casse che lui aveva appena scaricato. Ho immaginato cosa volesse. Non avevo ancora aperto bocca. Lui aspettava a questo punto che io dicessi qualcosa. Infatti, cosa dire, fare? Dirgli di ricaricarsi la sua roba sul furgone e di lasciarmi in pace, perché né io né mia moglie vivevamo di solo frutta, non mi era parso il caso.
Non diceva più niente. Aveva perso il brio iniziale. Continuava ad aspettare. Sfuggiva al mio sguardo. Aveva capito che avevo capito. Era arrossito un po’. Cosa lo spingeva a tutto questo? Che sciocca domanda. Aveva un viso intelligente, pronto. Ho pensato che avrebbe potuto essere mio figlio. Questo pensiero ha portato automaticamente la mia mano al portafogli, l’ho aperto e gli ho detto di prendersi l’equivalente delle 4 casse di frutta. L’ha fatto. Intascati i soldi, è salito sul van ed è sparito.
Non avrei dovuto comportarmi così, forse, però l’ho fatto. Ho rimesso la macchina al suo posto, chiuso il cancello, poi ho portato, non senza fatica, la frutta in casa pensando di darla ai miei vicini. Avevo sistemato le casse provvisoriamente in cucina. Mi stavo versando dell’acqua in un bicchiere quando le mie narici sono state assalite da un odore acre, sgradevole. Era l’odore dei meloni marci. Anche le pesche e i fichi d’india lo erano. Li aveva camuffati bene. Non mi ero accorto di questo dettaglio. Ho buttato tutto nel cassonetto dell’immondizia prima che arrivasse mia moglie.
Per giorni mi sono portato dentro la rabbia. Non contro il giovane che mi aveva imbrogliato così miseramente, ma contro tutto un paese.
L’industriale Luciano P.
Nei primi anni del mio ritorno nel Paese delle meraviglie, una mattina, nel bar sotto casa, ho incontrato un tipo. Era un industriale, l’industriale Luciano P. Vendeva anche all’estero, particolarmente nei paesi orientali, macchine e macchinari tessili vecchi e nuovi. Mi propose, una volta a conoscenza del mio lavoro, di diventare suo collaboratore per un paio d’ore al giorno. Dato che conoscevo l’inglese, il mio compito sarebbe stato quello di prendermi cura dei clienti esteri.
L’ho fatto per cinque mesi. Nell’ufficio c’erano sua moglie, che lui picchiava regolarmente, e una giovane segretaria. Questa, l’ho capito dopo, non durava mai più di un mese. Ho scoperto che metteva degli annunci gratuiti sui giornali locali offrendo un posto da segretaria a giovani apprendiste. L’accordo diceva:
“Se sei brava, dopo un mese di apprendistato, il lavoro sarà tuo.”
Nessuna, però, neanche la più brava segretaria del mondo, avrebbe mai ottenuto quel posto. Sfruttava le ragazze per un mese senza dar loro una lira e poi diceva che, purtroppo, non era esattamente quello che lui cercava. Questo si verificava sempre all’ultimo giorno di prova della ragazza. Il giorno dopo ce n’era pronta un’altra, entusiasta e giovane.
La cosa con Luciano P. non si fermava solo allo sfruttamento delle ragazze. Era un vizioso. Verso la fine del mese di apprendistato, quando si era ormai stabilito un certo feeling tra lui e la would be segretaria, dichiarava alla giovane che doveva recarsi all’estero (che poi era sempre in Svizzera) per lavoro e che desiderava portarla con sé per farle conoscere alcuni clienti importanti. Figurati, Rossi, la ragazza, non immaginando i suoi piani, impazziva dalla gioia, convinta che tutto stesse andando per il verso giusto. Una volta in Svizzera, però, per una ragione o per un’altra, l’appuntamento col cliente, guarda caso, veniva annullato (in realtà non c’era mai stato), quindi, dopo una cenetta qui e un caffé là, si andava in albergo. Una volta qui, Luciano P. trovava sempre una scusa per dire che aveva speso tutti i soldi che aveva portato con sé, che aveva dimenticato il bancomat, che non c’erano altre camere ecc., proponendo alla giovane, di punto in bianco, di trascorrere la notte nella sua camera!
Naturalmente, non sempre le cose andavano come lui si aspettava, ma, la maggior parte delle volte, riusciva ad ottenere comunque qualcosa.
L’ultimo venerdì del mese che ho lavorato per questo signore, Daniela, la ragazza che stava per lasciare il posto alla successiva fortunata candidata segretaria dell’industriale Luciano P., mi aveva parlato della disperata situazione economica in cui versava la sua famiglia: mamma invalida, padre morto, fratello drogato, senza soldi, pieni di debiti, rischio di sfratto.
Quello stesso venerdì, sapendo cosa attendeva a Daniela, ero passato in banca e, dopo che l’industriale Luciano P. aveva dato all’ “aspirante segretaria” la bella notizia, le ho dato tutto il denaro che ero riuscito ad ottenere dai miei cinque mesi di lavoro che avevo fatto per quell’autentico prodotto del Paese delle meraviglie.
Nel prossimo post, se questo è un paese III
Tratto da Il Paese delle meraviglie