“Mais” romanzo di Vittorio Bocchi

 

foto (3)Ci sono immagini forti e indimenticabili in questo romanzo: Adalgisa che si sposta da un lavoro all’altro portando con sé i suoi tre marmocchi, Otello, Cassio e Desdemona in una carriola; il Maino che siede nell’ombra a capotavola sbirciando lascivamente le femmine mentre mangiano; Cassio che vuole dimostrare a un industriale americano che lui non è da meno; Desdemona che rifiuta di sposare l’uomo che l’ha violentata e vuole crescere il figlio nato dall’abuso da sola; il Beppo che una volta firmato il testamento dal notaio è pronto a morire in pace; Otello che nonostante appaia come il personaggio più incolore e solitario del racconto, è in realtà il più temuto e rispettato; Andrea che sul fronte alpino della carneficina 14-18, si lancia contro una postazione austriaca; la vedova che si aggira per le strade e nel cimitero con un rosario in tasca e trova forza e conforto parlando, non coi vivi, ma coi morti.

L’ammetto, prima di leggere il romanzo di Vittorio Bocchi, “Mais”, avevo cercato di leggere il romanzo di Umberto Eco, “Il pendolo di Foucault”, il romanzo di David Nicholls, “Un giorno”, il romanzo di Michel Houellebecq, “Sottomissione”. Il primo, ahimè, è un mattone a non finire, il secondo una masturbazione all’inglese e il terzo una caricatura sociale confusa e gratuita. Non ho finito di leggere nessuno dei tre libri. Gli autori che li hanno scritti e le case editrici che li hanno pubblicati, mi hanno rubato prima i soldi comprandoli, poi il tempo che gli ho dedicato, per non parlare della delusione e dell’inganno che hanno lasciato dentro di me. In nessuna pagina, di questi tre romanzi, almeno di quelle che ho letto, potrei dire di aver provato quello che ho provato nelle pagine del romanzo “Mais”. Questo non vuol dire che “Mais” sia un libro pieno di sentimentalismi. Affatto. Non c’è nessun sentimentalismo in esso, c’è solo la realtà, quella che tocca e va a fondo dell’animo umano, è questa la forza che sprigionano le sue pagine.

Caro lettore, se chiudi gli occhi per un momento e fai finta di scendere dal cielo con un paracadute e più ti avvicini alla terra, più ti diventano chiari i suoi contorni geografici, inizi così a vedere la striscia lunga, serpentina e bianca del fiume Po, i vasti campi di mais, le casupole nel centro delle quali stai per atterrare. Un po’ fuori da questo paesello, c’è il palazzo del marchese Cantalupi. Non appena i tuoi piedi toccano terra, ti accorgi che non sei atterrato in un Eldorado, ma in un luogo di straccioni, poverelli, di gente che sta in piedi, ma in realtà è morta, e questo subito dopo l’unificazione d’Italia. Il romanzo “Mais” parte da qui.

È un racconto senza protagonismo. I personaggi, se proprio ci tieni a identificarli, sono il fiume Po che, quando c’è la piena, gli abitanti del luogo sentono vibrare il terreno e sono subito presi dal terrore dello straripamento delle acque, i campi dei contadini, la pianura padana, la piccola agglomerazione di tuguri dominata dal palazzo Cantalupi, la pellagra, l’indicibile miseria scritta sui volti di quelle anime che ti guardano, l’incultura, la natura, la morte. Sono questi alcuni dei protagonisti di “Mais”. Una lettura fisica, storica, evoluzionistica, una lettura che lascia dentro chi legge le sue pagine un senso metafisico e spirituale della nullità e pochezza umana.

“Mais” è un romanzo realistico, tessuto con uno stile descrittivo pignolo, preciso, quasi scientifico, una visione pragmatica della vita. Il tutto è cucito con un linguaggio che sembra, mentre lo leggiamo, toccare con mano il luogo e la gente che lo animano. Un racconto che investe l’anima, il cuore e lo spirito anche di quelli che l’anima, il cuore e lo spirito non ce l’hanno.

I personaggi di “Mais” sono degli anti-eroi. Si muovono in un mondo dominato, non da ambizioni eccelse, ma dall’istinto di sopravvivenza e questo ha a che fare con la legge della natura e non con la cultura. La loro ambizione è sopravvivere a tutti i costi come lo è quella di qualsiasi altro animale sul pianeta, solo che l’animale animale lo fa per istinto cieco, gli anti-eroi di “Mais” lo fanno spesso con un istinto avveduto.

Tutto è questo racconto eccetto che una storia piena di artifici stilistici e di nonsenso. Il suo racconto è sentito, scritto col cuore e questo anche quando esce dalla pianura padana, da quel pezzo di terra aggrappato al fiume della vita e della morte, per spostarsi sull’altra sponda del mare, magari in America. Quando questo avviene, è vero, la narrazione turba un po’, è come se d’un momento all’altro il paesaggio a cui eravamo abituati perdesse la sua compostezza primaria e espressiva e subentrasse in un realismo, non più graffiante e profondo, ma naif. Però, occhio, perché questo realismo naif, è voluto e non gratuito. All’autore piace descrivere gli esseri umani per quello che sono e non per quello che si vorrebbe che fossero. È come se volesse dirci prima che noi esprimessimo un giudizio: “Questa è la vita e il linguaggio dei molti e io non posso farci nulla, eccetto che descriverla così com’è.”

Un romanzo storico, dunque, un romanzo che, a lettura finita, ci lascia qualcosa dentro: un gusto per il nuovo, per l’avventura, per la vita; un senso etico, morale, di solidarietà, di umanità, cosa che non ci lasciano molti capolavori moderni e contemporanei e neppure e soprattutto quelli che più sono spinti dalla critica. Viviamo, siamo sempre vissuti, ma oggi questo l’abbiamo tutti capito fino alla nausea, in una società che premia la falsità, lo stile artificioso e astruso, e tutto ciò che è falso e astruso viene vantato e premiato a scapito della realtà intima e naturale dei fenomeni e dell’uomo. E così, mentre gli scrittori furbi, farisei e venduti al Sistema dipingono un mondo pestifero, vuoto, assurdo, zeppo di ogni sorta di droga culturale chiamata “arte”, che è, invero, la peggiore in assoluto di tutte le arti, l’autore di “Mais”, Vittorio Bocchi, riempie le sue pagine di senso e di amore per tutto ciò che geme, si muove e respira.

“Mais” è un romanzo di denuncia, di vita, di battaglie combattute in silenzio in un teatro privo di spettatori e di attori; è un romanzo umano, e proprio perché è un romanzo umano, quindi di denuncia, denuncia uno Stato sempre meno Stato e sempre più incapace ladro bandito e boia, che vende il suo popolo agli altri Stati, non meno incapaci ladri banditi e boia di esso, per quattro soldi come ha fatto con quelli che sono stati venduti al Costa Rica nel 1886, con quelli che sono partiti per l’America degli yankees, con quelli che sono partiti per il Belgio e nel ’56 tanti di loro sono stati seppelliti vivi nella miniera di Marcinelle; denuncia contro gli eterni egoisti, contro l’eterna inumanità che viene cantata e venduta per umanità. È un romanzo di anti-eroi, e lo è anche quando Cassio riparte per il centro America e lo fa perché vuole dimostrare a Keith, the self made man american, che anche lui, Cassio, può fare quello che ha fatto lo yankee senza però brutalità e senza perdita di vite umane; e lo è anche quando Andrea si lancia contro il fortino austriaco: il suo gesto non è eroico, ma guidato dalla disperazione. Non c’è idealismo in “Mais”, ma la realtà per quello che è: silenziosa e disumana. Un romanzo completo, espressione di vita senza artificio e senza eroismo che è la vera vita.

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